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Lalli – “Preferisco il rumore del mare”, poesie inedite

Creato il 24 aprile 2015 da Carusopascoski

“Il cigno è balzato nel cielo desolato;
L’immagine può farmi infuriare, darmi una frenesia
Di porre fine a tutto, di finirla con ciò che la mia vita
Travagliata ha immaginato, perfino
Con la pagina mezzo immaginata, mezzo scritta;
Oh, ma noi sognavamo di trovare un rimedio
Per ogni male che sembrasse
Affliggere l’umanità, ma ora
Che soffiano i venti dell’inverno impariamo
Che eravamo dei matti a sognarlo”

William Butler Yeats, La torre

Lalli – “Preferisco il rumore del mare”, poesie inedite

Ho conosciuto Lalli per la prima volta un anno fa a San Vincenzo, vicino Livorno. Ci recammo lì con alcuni membri dei Cani Bastardi, collettivo di Castelfranco di Sotto che un anno fa mi contattò offrendomi l’opportunità curare l’edizione di un libro intorno a Franti, una delle più importanti band dell’underground italiano, che abbiamo poi effettivamente scritto ed uscirà a breve, pubblicato da Nautilus Autoproduzioni e di cui su questo blog potete leggere alcune anticipazioni (quiqui – e qui). 
Lalli di quei Franti era la voce. Ma per coloro che hanno frequentato l’area punk-antagonista degli anni Ottanta Lalli è La Voce e insieme a Miro Sassolini dei Diaframma e pochi altri la voce emergente più intensa dell’intero decennio, letteralmente: storia del decennio 1980-1990. Lalli è stata poi tante altre cose: cantautrice, attrice, interprete, sempre per esser vento agli ultimi e alla lotta per qualcosa di più umano in ogni direzione possibile. E per il nostro libro infine, Lalli è stata la bocca di fuoco che abbiamo consultato per iniziare a scrivere una storia tra le tante, ma diversa da tutte le altre: appunto, quella dei Franti e di Franti.
Per me fu un sogno: trovarmi a casa di Lalli, tra i suoi libri, i suoi dischi e la sua voce interrogata da me e da Stefano Giaccone, altra grande anima dei Franti ed ennesima incarnazione del Franti di Edmondo De Amicis, l’insolente, generoso e libertario battito autentico dentro il libro Cuore – che avrebbe formato la classe dirigente del ventennio fascista portando sul palmo della mano chi, Franti, l’aveva cacciato dalla scuola – colui che a un certo punto ha capito fosse il momento giusto per dare testimonianza di quella band, di quella storia e dei suoi sogni irreversibili. La voce di Lalli è audace e fragile al contempo, tiene uniti dentro cento sentimenti diversi che insieme non potrebbero stare che dentro a delle canzoni. O dentro a un mondo diverso, da cui oggi siamo ben distanti ma non meno tentati di rivendicare.

Lalli – “Preferisco il rumore del mare”, poesie inedite

“Persone in fondo agli occhi.
Parole in fondo al mare.
Ho cantato molte canzoni.
Per fortuna,
qualcuna si è liberata da me”

Dei Franti sono totalmente, perdutamente innamorato. Sono stati un cazzotto in faccia di quelli che ti fanno rendere conto che non hai una mascella solo per masticare, ma anche per lottare e rispondere all’urto delle cose intorno a te. Franti è libertà, pura libertà, punk che fluisce nel free-jazz e sbatte su un muro rovente di hardcore per poi svelare la sua natura folk. Le canzoni di Franti però hanno un elemento sfuggito a molti: dei testi completamente poetici, in cui le immagini sono pure e libere dai vincoli del senso comune, con un carico evocativo dirompente e indimenticabile. E Lalli e Giaccone solisti non sono da meno.

“Passo le sere a cucire
qualcosa di antico,
affinché torni a vivere
un tempo fermo”

Potete immaginarvi con quale gioia possa aver aperto una mail con un allegato tra i migliori mai giunti nella mia casella mail, una raccolta di poesie, folgorazioni e scritture scritte da Lalli negli ultimi anni, proprio nella sua casa di San Vincenzo – non a caso Lalli canta Preferisco il rumore del mare – che a quello che ho capito sono tra i primi a leggere e di cui Lalli mi chiede persino un parere, una impressione, io che non riesco che ad amare profondamente tutto quello che si fa poesia autentica – e quella di Lalli la è eccome – e che non ho gli strumenti – né il vezzo – del critico letterario. Ma sono pur sempre un sentimentale e credo che qualche sentimento intorno a queste poesie possa esser degno di testimonianza, di far loro da introduzione e pubblicarle per la prima volta, naturalmente col permesso di Lalli stessa.

“Pallido mistero.
L’onda ci rapisce
Non è terra dove andiamo”

Le poesie di Lalli sono dolenti – “sono amara di parole”, scrive – esattamente come le sue canzoni, e segnate da un presentimento intangibile e cangiante di precarietà dell’esistente, verso cui le parole hanno la stessa intenzione di quei fiori che annunciano la fine dell’inverno; e altrove di pioggia torrenziale, fuori stagione, che dura il tempo di esaurire un improvviso rovescio, come quei finali ora scure che talvolta pone sulle fantasie nostalgiche, ora autentiche rivelazioni scolpite con abilità da poeta consumato eppure dirompenti come una bocca che torna a parlare dopo un lungo silenzio: “è una canzone che manca”, scrive ancora Lalli. Una dialettica che rivela il passato alla luce di un futuro che non si compie mai ma in cui si riversa tutto l’immaginario, che instancabile percorre quelle tappe che all’esperienza tangibile sono vietate per vincolo di realtà e di una libertà che non è mai abbastanza, che non si smette mai di inseguire neppure quando si è già raggiunta, finendo per superarla ed incarnarla a nostra insaputa. Perché Lalli ha una libertà invidiabile di temi, umori e immagini e soprattutto la libertà più importante per un poeta: quella di scrivere per amare, e non per farsi amare, distinzione indicata entro un bellissimo scritto di David Foster Wallace che ora Lalli mi fa tornare alla mente da quell’altrove in cui si era cacciata. Altrove da cui, poi, sembra venire la sua voce e a cui le sue poesie sembrano voler approdare, mancandolo infine, come due amanti complici che si desiderano a lungo ma a cui il fato ha tolto la fortuna dell’incontro, qui tra Lalli e il sogno, un sogno che non sogna più se stesso ma la capacità stessa del sognare, un sogno che non si libera mai nell’astratto autistico ma resta palpabile, legato all’esperienza e teso all’Altro indefinito cui ogni poesia si rivolge.

“A volte mi scopro guardare il tempo,
sentirne il gusto,
e mi sorprendo nel desiderare null’altro
che questo profondo stare”

E Lalli tende la mano a te, che la stai leggendo in quel preciso momento, perché se è vero che non si sa mai prima quello che si scrive, è altrettanto vero che non si mai prima quello che si legge, specialmente se sulla pagina bianca si è posato il fantasma latente dell’autore, da cui neppure egli stesso può salvarsi. Ma il grado con cui riesce a indicarcelo ci dice la forza della sua poesia, e quella di Lalli è autentica, luminosa, compiuta. Per questo e tanti altri motivi che qui non so dire, vi invito a leggerla.

Lalli – “Preferisco il rumore del mare”, poesie inedite

Ieri è caduta neve sul dolore
e il rumore non si è rialzato.
Sulla piazza, le bandiere
hanno chiamato venti di frontiera.
Ho aperto gli occhi,
li ho richiusi sulle tue palpebre,
e i miei capelli, di nuovo lunghi,
chiamavano il vento
dei panni stesi alla ringhiera.

***

Tornerò in mezzo a queste strade,
queste stanze.
Scruterò i libri e i fiori.
Riconoscerò ogni angolo, odore, colore.
Lascerò le risposte.
Poserò le valigie.
Riderò,
guardando gli indici delle tue mani
tenere il tempo.
Avrò il mio posto, il mio regalo.
Non ci saranno amori perduti
e saremo a casa per la cena.

***

Non cercare fortuna,
nella mischia,
oppure fra le pieghe,
ma tempo,
largo, di una nebulosa,
stretto, dell’argento
del riso di un bambino,
rondine spersa,
o gatto addormentato.
No, non fortuna,
ma tempo.

***

Mi conosci,
senza luci e rumori.
Mi manca sempre la neve,
sotto il cielo di Torino.
Cammino sul ciglio,
da tanto.
Le foglie mi cadono addosso.
Imparo, ogni giorno,
piccole cose.

***

Ho mille anime,
la mia rete per pescare,
il rumore delle pietre spostate dall’onda,
sempre sulla soglia
del passo indietro della memoria.
Sono la strada, le braccia, le scarpe,
un’attesa improvvisa,
un segno indelebile, appena distante,
un graffio sul muro,
la fabbrica vuota e, dappertutto,
ancora, e ancora, colori,
il mare dei sogni,
tanti ancora da rovesciare,
un’ombra appena, da tenere per mano,
l’aquilone più leggero che si poteva trovare.

***

Centinaia, migliaia,
milioni di nomi,
scritti con una matita piccola,
sparsi ovunque.
Centinaia, migliaia,
milioni di parole,
scritte con una matita piccola,
sparse ovunque.
Eppure, c’è il mio tempo,
dalle federe consumate lo capisco.

***

Quasi nessun peccato è abbastanza pesante e scuro
da non poter essere perdonato dalla propria voce.
Nessuna voce può parlare senza peccato,
senza gli errori accumulati,
divenuti grumi di suoni indimenticabili.
La tua voce sola può perdonarti
e cantarti, muta,
la pietra buona, la tua vita.

***

a Marino Soffietti e Giuseppe Marrone

Alghe, ciottoli,
campi di sterpi, granturco,
montagne di automobili,
qualcosa che sempre manca,
schegge di ricordi.
Gli occhi più buoni del mondo,
di due miei compagni di scuola.
Che bella strada guardavamo.
Che bella fiera ci appariva dal buco della chiave,
mentre ci spiava il tempo cattivo.

***

Quando non trovi il solco,
le parole restano vuote,
ma quando succede,
il mondo vibra e lo senti,
e quel sogno ritorna.
Quante risa ho visto sfuggire
dal vaso della fatica.
Quanto ho adorato il temporale
sfuggito anche all’estate più ingrata,
giustizia insperata sulla città assediata.
Quanti saluti ci sono al mondo.
I fiori sul tavolo, al rientro dal lavoro.
I fiori sul letto, l’ombra del tuo passo.

***

a Germinale, Èmile Zola

È il sole d’aprile che sale.
Piccoli grani si aprono al cielo.
Il rumore nell’aria
è un lungo bacio rovente,
il risveglio di primavera.
Ma è una luna di uomini nuovi
che scalda il sonno di un secolo scuro,
e il germe del cuore
è il lungo bacio rovente,
ché la terra ci svegli presto,
più presto.

***

a Vincent Van Gogh

Linee celesti che legano i cuori.
Ponti sottili,
appoggiati su visioni di inimmaginabili futuri compiuti.
Un fazzoletto acceso dal dorso
di donne in ginocchio
che lavano i panni al torrente gelato.
Per favore, signor sorvegliante,
mi lasci stare ancora un minuto.
Starò tranquillo, qui sulla panchina,
in questo giardino che sta per tramontare.
Per lei, non è niente,
ma io devo poter ricordare.
I lampi, la sedia, i corvi sul grano,
polvere in cenere fino a farla cantare.
Fosse stato soldato,
sarebbe stato una fuga, un ritorno,
una corsa giù dalla riva,
il berretto che vola,
e, ancora, giù, seduto nel sole,
a consolare la terra.

***

Ci hanno sfidati sul ponte delle parole,
con verità scagliate come lo sputo
da lingue pronte allo spergiuro.
Andiamo,
prendi il tuo viso,
che non può ricordare,
porta il sorriso,
che, tuo malgrado, saprà ricordare,
e i tuoi occhi,
che specchieranno il mio giardino,
così antico
da sembrare mai fiorito.

***

a Carlo Giuliani, Genova, 20 luglio 2001

Guardo il buio della città.
A volte è viola, altre arancio,
altre ancora è proprio bianco,
non so capire perché amarlo così tanto.
A casa, il buio è diverso,
ti guarda, ti parla.
Dolente, di un dolore puro,
senza possibilità di spiegazioni, né ragioni,
non è vero che in questi giorni
mi sono sentita come tanti anni fa,
quando masticavamo chilometri e speranze,
in mezzo al fumo che inondava le strade,
e parole furenti che riempivano le stanze.
Da molti l’ho sentito dire,
ma non è stato così per me.
Tutti insieme, e tutti in un angolo.
Soli, stretti ad altre solitudini.
Nel mondo, a mia insaputa,
altre vite respirano anche per me
e, quando si fermano,
è proprio me che lasciano sola,
proprio me.

***

Quando torno a casa,
conosco a memoria le curve,
riconosco ogni petalo sul quale salivo,
per intraprendere il mare di sempre
e la terra di domani.
Sono ancora campi, scarpe,
rive, fossi, capelli sudati,
zappe, bottiglie di vino,
che sovrastano donne e uomini,
chini,
nelle vigne,
sull’affanno dei soldi per comprarsi la vita,
sul riposo che la sera viene a riempire le case,
e non basta mai.
E ancora, da sempre,
nel buio, canto.

 


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