Michela Vittoria Brambilla
Oggi a Lecco è andata in scena la «Marcia della libertà», una sfilata organizzata dalla parlamentare Pdl Michela Brambilla coi beagle sottratti al centro Green Hill, l’allevamento che negli ultimi mesi ha infiammato il dibattito sulla sperimentazione in seno all’opinione pubblica. Il Corriere della Sera ne ha parlato online qui.
Nella stessa giornata in pieno centro a Milano un gruppo di ricercatori e addetti ai lavori, facenti capo all’associazione Pro-test, si è ritrovato per promuovere un dibattito critico sulla necessità della sperimentazione animale nella ricerca scientifica; un evento a cui hanno partecipato professori, esperti in materia e persino alcuni malati, a denunciare l’urgenza della ricerca.
Un centinaio di attivisti animalisti è intervenuta sul posto brandendo cartelli e scandendo cori come «assassini assassini» e alcuni epiteti che preferisco non tradurre qui. Per il Corsera è successo, ma evidentemente non ha troppa importanza: se ne parla in un anonimo trafiletto nell’edizione locale del quotidiano, per ora. Nessuna foto, né visibilità.
Ora, io credo che qualunque persona matura, consapevole e dotata di un’etica responsabile sappia che il cosiddetto specismo è uno dei tasselli fondamentali dell’esperienza umana. L’uomo non è un animale: organizza il suo futuro, è capace di emozioni articolate, modifica il suo habitat in base alle sue esigenze, si interroga sul suo destino, affina il suo raziocinio. La prevalenza del valore della specie umana sulle altre è un dato di fatto storico, non un’esibizione di egoismo di criminali e crudeli magnati del farmaco. Si tratta di buonsenso: Mozart avrebbe fatto ciò che ha fatto, da beagle? E Leopardi? Non sono idiozie: qualcosa (o qualcuno, a seconda di come la si vede) ci ha creati diversi, e lo sperimentiamo durante tutta la nostra vita.
C’è poi un’altra questione, ovvero quella che fa capo al “come stanno le cose”: gli esperimenti sugli animali sono regolamentati da una serie di direttive europee e leggi nazionali che impediscono maltrattamenti e – peggio – sevizie deliberate su cani e gatti – se si parla di piccoli topi e simili bestiole, che costituiscono la stragrande maggioranza delle cavie utilizzate nei laboratori, generalmente gli animalisti si dimostrano meno convinti delle proprie teorie. Per un approfondimento razionale e libero da condizionamenti vi rimando a questo sito, dov’è tutto spiegato bene e senza inutili proclami di parte.
Io stesso, partecipando occasionalmente alle discussioni su Facebook in materia, mi sono recentemente sentito accusare di essere un assassino e augurare le peggiori sventure; so di che parlo se dico che l’intolleranza di una certa nicchia di animalisti, violenti a parole e ostili ai fatti comprovati, è un dato tristemente acclarato. Peraltro ho un cane, gli voglio bene e mi si spezza il cuore a pensarlo sofferente. Ma ho anche dei parenti che potrebbero ammalarsi; io stesso potrei ammalarmi. Le persone che amo potrebbero avere bisogno di cure che non posso permettermi di rifiutare perché di origine animale. L’etica non è questo: l’etica è coscienza, e coscienza è sapere cos’è più importante: chiedete a chi lavora o ha lavorato in un ospedale che cos’è morale e cosa no, quando si parla di morbi incurabili.
Perciò lancio due appelli, dalle righe di questo blog: il primo agli animalisti più intransigenti: informatevi, leggete l’opinione pressoché unanime del mondo scientifico sull’argomento. Immaginatevi nelle vesti sventurate di una persona malata o con un caro malato. Fate due chiacchiere con la vostra coscienza, scoprite che quando parlate di «metodi alternativi» e «prodotti non testati» parlate rispettivamente di soluzioni che ci piacerebbero, ma inesistenti e modelli impraticabili. Io non molto tempo fa l’ho fatto e ho cambiato idea.
Il secondo alla redazione del Corsera: fate bene a parlare della manifestazione di Lecco – se quei cani sono stati sottoposti a pratiche illegali, ci fa piacere che siano tornati in libertà – ma commettete un grosso errore tacendo su un piccolo segnale di civiltà di un gruppo di giovani – spesso sottopagati, quasi sempre costretti a non rivelare la loro professione – che lavora con passione a quella cosa detta progresso, il motore primo della nostra civiltà.
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