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DUE TEMPI DELLA POESIA DI ANTONIO SPAGNUOLO: “CANDIDA” E “DIETRO IL RESTAURO”. Saggio di Giuseppe Panella

Creato il 07 maggio 2010 da Retroguardia

DUE TEMPI DELLA POESIA DI ANTONIO SPAGNUOLO: “CANDIDA” E “DIETRO IL RESTAURO”. Saggio di Giuseppe Panella 

di Giuseppe Panella

 

“Non si può dubitare che la qualità visibile nell’aspetto dei morti che più atterrisce chi guardi, è il  pallore marmoreo che vi si posa: come se davvero quel pallore fosse altrettanto il segno della costernazione nell’altro mondo, quanto della trepidazione mortale in questo. E da quel pallore dei morti noi prendiamo il significativo colore del sudario in cui li avvolgiamo. Nemmeno nelle nostre superstizioni manchiamo di gettare lo stesso niveo mantello intorno agli spettri, tutti i fantasmi sorgendo in una nebbia lattiginosa”
                                                     (Herman Melville, Moby Dick o La Balena)

 [ per ricordare Mario Pomilio, maestro e amico ]

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 1. Bianco è il colore delle ambiguità

     “Il bianco è il colore che più si addice agli dei” – affermava Platone ed Euripide lo conferma. “Indossando vesti bianche fuggo la generazione dei mortali” fa dire al sacerdote protagonista di una sua tragedia. E, d’altronde, per Aristotele, l’aria pura e trasparente è léukos, bianca.

    Nella cultura occidentale, dunque, e segnatamente nella sua dimensione saldamente legata al lascito della mitologia classica, il bianco è un colore che accompagna una dimensione antropologico–cultuale che non sembra preludere ad una dimensione numinosa negativa o offuscata da tristi presagi.

    Il bianco sembrerebbe essere il colore della gioia e della purezza, non del lutto o dello spavento e gli eventi della vita di tutti i giorni sembrerebbero confermare questa impostazione: il bianco è il colore della letizia, non della morte.

    Eppure la radice indoeuropea della parola bianco può avere una doppia articolazione di significati: può voler dire “essere vivido”, “brillante” così come “pallido”,”vuoto” ed essere legato da un lato alla bellezza dei corpi e delle anime e dall’altro al loro scolorire ed appannarsi nel declino e nella morte.

     Bianco, comunque, in entrambe le sue accezioni nella lingua latina (candidus e cioè bianco abbagliante, albus o bianco opaco e lattiginoso da cui alba e anche albumina) sta ad indicare una dimensione di auroralità come lo stesso biancore del mattino incipiente sembrerebbe indicare.

     Il bianco prelude ad un mutamento radicale di status e di prospettiva, ha a che fare con l’inizio o la fine di qualcosa di importante dal punto di vista sociale o personale, segna un momento di passaggio da una condizione all’altra anche se non necessariamente positiva o sfociante nell’allegrezza.

    Candidus è il colore della toga che deve indossare chi, nell’antica Roma, si propone di essere eletto a cariche politiche e vuole dimostrare in questo modo di farlo senza secondi fini (!) e in nome del bene comune senza far prevalere la propria parte politica nei confronti della nazione o della comunità.

     Il “candidato”, dunque, deve presentarsi al giudizio del suo elettorato candido e scevro da ogni macchia di partigianeria e/o di corruzione (evento molto frequente nella prassi politica dell’antica Roma e, ovviamente, non solo in essa).

   Ma, per la cultura dei cattolici praticanti, bianche devono essere anche le vesti delle bambine e dei bambini che, dopo essere stati “ripuliti” da ogni macchia di peccato dalla loro prima confessione, si accostano per la prima volta alla comunione per ricevere il corpo del Signore e bianco è l’abito delle donne che si sposano per la prima volta a simboleggiare in tal modo la loro purezza e testimoniare della loro verginità.

   Il bianco indica l’inizio (o la fine) di un percorso iniziatico: dovrebbe indicare, dunque, una salda volontà di cambiare condizione e di passare da una dimensione personale ad un’altra nel rispetto e nell’obbedienza delle regole a ciò preposte e per essa stabilite.

    Ma bianco è anche il colore della fine e del vuoto: nell’ambito del rituale cristiano di sepoltura, i bambini morti precocemente vengono sepolti in piccole bare bianche avvolti in candidi lenzuoli decorati da fiori bianchi.

    E una bianca camicia viene fatta indossare ai condannati a morte così come i guerrieri aztechi destinati ad essere immolati al Dio Sole portavano piume e sandali bianchi.

    E perfino per le popolazioni africane primitive il bianco era il colore del sacro: di colore bianco sono le loro divinità, bianchi gli antenati che abitano il cielo e bianchi sono gli uomini prima di venire al mondo.

   A questo motivo di natura culturale si deve, tra l’altro, il timore e l’ostilità (del resto del tutto giustificabili dopo ciò che storicamente è avvenuto in seguito) con cui gli europei vennero accolti dagli indigeni: gli uomini bianchi sembravano fantasmi o abitanti dell’altro mondo agli abitanti di colore dell’Africa o del Nuovo Mondo.

   Il bianco è anche il colore dell’oltretomba, di coloro che hanno portato a termine quel “viaggio da cui nessuno ha mai fatto ritorno” (come dice profeticamente il principe Amleto di Danimarca nel suo celebre monologo); il bianco è il colore degli spettri, degli elfi, delle apparizioni tanto che per mascherarsi da fantasmi di solito si ricorre ad un lenzuolo dal bianco (più o meno) abbagliante.

   Il bianco è il colore della ricerca della luce e dello splendore ma anche il colore della potenza divina: il Figlio dell’uomo dell’Apocalisse è visto dal visionario apostolo Giovanni con i capelli bianchi come neve e come lana mentre il suo volto risplende come il sole. La sua terribile venuta futura coniugherà la purificazione con lo splendore della bellezza terribile che emana.

   Da quanto si è venuto elencando sommariamente sopra, allora, il bianco è il colore della purezza e della morte e il candore come tale può esprimere purezza, gioia, allegria, lealtà e affidabilità morale come essere preannuncio di morte.

2. Ritorno all’origine: scrittura e salvazione del poeta

 

    Un titolo come Candida consegnato ai lettori dalla copertina di un libro di poesie è, dunque, preannuncio di ambiguità semantica, di articolazione programmatica di possibilità espressive molteplici, sfuggenti e oblique rispetto alla natura normativa del linguaggio, di divaricazione tra significante e significato sulla base di una proposta ermeneutica del reale poetico che intenda sfuggire alla trappola dell’univocità.

   Candida, il duplice e vertiginoso titolo della raccolta poetica pubblicata da Antonio Spagnuolo nel 1985 per la casa editrice Guida con una eccellente ed insinuante prefazione di Mario Pomilio, può alludere, infatti, a molte più cose di quante siano “tra cielo e terra” (per continuare a citare l’Amleto di Shakespeare).

   Candide sono, infatti, le prospettive della poesia: la sua trasparenza, la sua obiettività, la sua mancanza di finalità diverse dall’azione culturale, la sua purezza, il suo candore, la sua ingenuità perfino non sono in discussione.

   I poeti non sanno (o non dovrebbero sapere) che cos’è la malizia e la mancanza di lealtà, dovrebbero essere i bianchi paladini di una visione della cultura e della scrittura che non appare insidiata né dalla corruzione morale né dalla macchia di azioni interessate e fraudolente.

   Le parole della poesia sono candide e la nerezza dell’inchiostro con cui sono stampate dovrebbe essere soltanto il loro segno tipografico, non spirituale.

   Le parole del poeta – primo livello interpretativo possibile – sono candide e la loro natura ancora virgo intacta dal loro contatto con alcunché di negativo o di insozzante. Esse sono bianche e tali vogliono restare come le anime dei bambini dopo la prima comunione o la fedeltà reciproca degli sposi dopo il rito matrimoniale.

  Ma Antonio Spagnuolo ha esercitato la professione medica per troppo tempo (nel 1985 è nel pieno del suo esercizio della medicina) e la sua formazione di poeta risulta fondata, oltre che su quelle umanistiche, su non evitabili conoscenze nell’ambito della biologia e dell’anatomia patologica.

   Candida albicans è anche il nome di un fungo imperfetto saprofita (Deuteromycetes) che vive normalmente all’interno del corpo umano e che può divenire virulento in determinate condizioni o stili di vita, producendo tutta una serie di disturbi di notevole entità (sindrome da fatica cronica, depressione, ansia, irritabilità, allergie ed emicranie, ecc.).

   Inoltre tali disturbi che avvengono per effetto dell’azione di questo parassita, una volta che è divenuto virulento, sono trasmissibili verticalmente (in sequenza madre-figlio) e/o orizzontalmente (attraverso i rapporti sessuali).

    Nel nome stesso è inclusa, quasi inscritta semanticamente, la natura della trasformazione di questo micidiale micete: da candidus diverrà albus, dal bianco abbagliante iniziale si va verso il bianco opaco ed opalescente dello stadio terminale.

  Candida sono, dunque, i verba del poeta ma lo sono anche i segmenti prodotti dall’attività endogena di questo saprofita che si sviluppa e fermenta all’interno dell’organismo.

   La caratteristica unificante di queste due possibili utilizzazioni metaforiche dello stesso termine sembra essere il loro bagliore luminoso di rivelazione di qualcosa che rimane e rimarrà nascosto e il loro ambiguo candore; una bianchezza, tuttavia, che tende nel secondo caso a diventare opacità così come opache e non più translucide diventano le parole dei poeti una volta usurate e logorate dalla loro quotidiana utilizzazione come strumenti di comunicazione ordinaria.

    Si legga a questo riguardo la poesia Candida (contenuta nella sezione Verde pelvi della raccolta) e che dà il titolo al volume (dove, ovviamente, proprio in vista e in ragione dell’ambiguità semantica perseguita, non v’è traccia del candore delle parole né accenno alla natura candida del lievito saprofita che ha questo nome inquietante):

“Come chiamarti / a ridosso di ottobre: / Merlo abbrunita? / Verde di collane? / Boccia d’inferno? // Il monile sfiora verga mattutina / vìola la mia sorgente / macchiandomi sul petto.//  Lacrime lamenti / la tua ignota taverna / brucia l’affanno: / ritorna papavero / enigma e profumo.// Specchia in cortile / sapore dell’infanzia. // Una gonna tutta luce nelle stanze. / Sullo sfondo il candore”

(Antonio Spagnuolo, Candida, Napoli, Guida, 1985, p.41).

   La chiave di tutta questa poesia apparentemente così enigmatica (ma tutta la poesia di Spagnuolo appare enigmatica nel momento in cui tenta una conciliazione impossibile tra conscio e inconscio, tra corpo e ragione, tra passione e razionalità ferrea) è proprio nel suo titolo.

   Già Mario Pomilio nella sua Introduzione, piccolo crogiuolo di intuizioni e di spunti critici che attendono ancora di essere sviluppati ed ampliati con attenzione e simpatia per l’autore, lo aveva notato concentrando la propria analisi proprio su Candida (testo centrale nella sezione Verde pelvi) e su Melania (che è, invece, sviluppato come un vero e proprio poemetto o rapsodia su temi medicali che si innalzano alla statura di protagonisti dell’Io profondo del poeta enunciante):

“Ha scritto una volta Antonio Spagnuolo che “la poesia è legata all’inconscio e l’inconscio è il luogo della poesia”. Ma una così esplicita professione di fede psicanalitica non si limita affatto al regime della poetica. Essa comporta da parte di Spagnuolo una  vera e propria assunzione di contenuti e mitemi anch’essi di origine psicanalitica: o, a dirlo più chiaramente, entrano massicciamente nei suoi versi, fino a diventarne radice e sostanza, il ben noto binomio di eros e thanatos, l’endiadi-opposizione di libido e morte, assunti per via d’un’estrema semplificazione con un’intensità quasi aggressiva e sofferti per converso fino allo spasimo e allo sgomento: lo spasimo di chi s’aggrappa all’eros in nome della vita, lo sgomento di chi da esso regredisce, per stanchezza magari e sazietà, verso immagini funeste e  talora macabre vertigini. In fin dei conti il protagonista di Candida e di Verde pelvi, la prima e la terza parte di questa raccolta, con i suoi ambigui segnali e la sua fallacia?  E protagonista di Melania chi altri è se non thanatos, la morte col suo sentore diffuso e quasi crudele che insinuandosi per ogni dove introduce nelle cose una sorta di corruzione, tanto più che l’abbondanza stessa dei termini clinici rimanda inevitabilmente all’idea del morbo e del dissolvimento, lasciando trasudare l’irrimediabile infermità del vivere, la perpetua nostra entropia?”

(Mario Pomilio, Introduzione a Antonio Spagnuolo, Candida cit., pp. 6-7) .

   Mario Pomilio è, come sempre, piuttosto illuminante: il chiarimento che dà, tuttavia, abbisogna di un ulteriore chiarimento data la pesantezza del testo di Spagnuolo e della sua posta in gioco.

  Va innanzitutto chiarito un punto essenziale per l’analisi del testo data la sua posizione centrale nell’intero volume di Spagnuolo e data la sua “assunzione di responsabilità” riguardo al titolo (che coincide con quello della raccolta).

   Non è un caso che Candida quale titolo e sviluppo della poesia omonima si ponga immediatamente in posizione opposta e inversa rispetto a Melania, il testo poematico che la precede e che contiene tutta una serie importantissima di connessioni tra cure mediche (diete iposodiche a p. 27; tomografia assialecomputerizzata più nota come TAC a p. 31, bypass a p. 33), malattie più o meno gravi (cito a caso cardiopatie congenite / semilunari in posizioni aortiche a p. 28; talassemìa a p. 30); cefalea e epatite a p. 31; ulcera incallita a p. 32; biopsie di mammelle a p. 33 e così via), nomi di farmaci (Roipnol a p. 28; Laevosan-Coalip a p. 31, per es.) ed episodi connotati e rivissuti in chiave decisamente erotizzante se non marcatamente erotica (“Impenitente / guadagno furtivo i tuoi modelli / non sgrani lussurie / anfratti di meridiani ombreggiati / caverne dagli intrighi” a p. 30 ; “Le giornate sono piene di te / inganni sotterfugi amplessi  / lo scrittoio ingrandisce / stiviamo le mani a pochi frutti: / indeciso utilizzo il tuo cespuglio / come ingresso diretto / agile balzo / al peso del mio camice” – pp. 30-31) .

  In Candida, invece, manca ogni accenno alla malattia e il suo possibile (e spesso prevedibile) sviluppo (la morte).

  Manca pure ogni accenno, però, ad una sessualità esplicita e a una possibile utilizzazione della capacità erotica come camera di compensazione rispetto all’impellente necessità di trovare scampo dalla morte.

  Se in Melania la malattia il male fisico la morte erano il contraltare dell’appagamento fisico del sesso del piacere, in Candida questi due aspetti sono fagocitati all’interno dell’enigma della vita (non a caso distintamente evocato al verso 13 come enigma e profumo) .

  Se Melania esplicitava indissolubilmente la connessione-scontro tra amore (fisico) e male (fisico), un tale contatto e una tale articolazione proprio perché conseguenzialmente sviluppati nel testo si sciolgono in flusso di coscienza, in osservazione stupita del mondo, in capacità di ritrovarsi in una moltitudine di segni e segnali spesso divergenti in apparenza ma tutti alla fine coincidenti nell’evocazione finale del candore (v. 17).

  “La gonna tutta luce nelle stanze” che esplode nel v. 16 è de-sessualizzata ed apre al biancore finale e apocalittico quale epifania indistinta dell’origine che chiude la lirica.

   Il “candore sullo sfondo” che si trova alla fine della poesia potrebbe essere considerato, in realtà, ciò che costituisce l’inizio della poesia, il luogo indistinto e non comprensibile della poesia come pratica di conoscenza “ingenua” (e, infatti, non parcellizzata nei saperi tecnici della medicina né consegnata dal magma dei sentimenti e delle passioni individuali né specificata dalle scariche libidiche che performano il sesso praticato o vagheggiato dai singoli).

  E qui la poesia torna ad essere naturalmente “ingenua” perché risulta originaria e ingenerata capacità di ricongiungersi all’origine indistinta dell’istinto vitale di cui “la gonna tutta luce” è metonimia espressivamente forte.

  Allo stesso modo la “boccia d’inferno” del v. 5 e la “ignota taverna” del v. 10 sono metafora stringente di quel desiderio di tornare all’indistinto originario e forse all’utero materno (visto però non come appartenente ad una donna specifica come madre ma al genere femminile come luogo eterno e deputato alla vita).

  L’analisi potrà sembrare forse azzardata a prima vista; va detto però che bisogna tener conto in ogni modo del parallelismo esistente tra i due testi archetipi Melania e Candida e della loro differenza specifica: se Melania è il luogo del piacere ma anche della morte, Candida è il momento del ritorno all’indistinto delle origini e della non-operatività del male fisico e morale superati e assorbiti in una sorta di biancore primordiale che attutisce e soffoca la differenza sessuale e la funzione specificante del significato.

  L’origine si configura come significante; nel bianco indistinto del primordiale il nero della scrittura (come quello della malattia e dell’istinto sessuale) non incidono e il poeta sprofonda in esso come nel sonno amniotico del non-nato.

  Così alla fine del romanzo Le avventure di Gordon Pym di Edgar Allan Poe, il viaggio del protagonista si conclude con il suo sprofondare vertiginoso e ipnotico nel biancore lattiginoso della terra incognita e mai calpestata da piede umano che potrebbe essere il misterioso continente dell’Antartide:

“La tenebra era notevolmente aumentata, mitigata solo dalla fosforescenza dell’acqua, su cui si rifletteva la bianca cortina spiegata davanti a noi. Giganteschi uccelli di un livido biancore volavano incessanti da dietro la cortina e ripetevano l’eterno Tekeli-li, a mano a mano che si allontanavano dalla nostra vista. [...] Ma noi già precipitavamo nell’amplesso della cataratta, dove si spalancò un abisso pronto a riceverci. Ed ecco sorger sulla nostra rotta un’ammantata figura umana, di proporzioni ben più vaste di qualunque abitante della terra. E la pelle di questa figura aveva il colore delle nevi immacolate”

(Edgar Allan Poe, Le avventure di Arthur Gordon Pym, in Tutti i racconti e le poesie, Firenze, Sansoni, 1973, pp.820-821).

  Arthur Pym sprofonda a velocità forsennata e catastrofica nel Mare Antartico ma, anche perdendosi definitivamente, salva il resoconto del suo viaggio: il poeta, inabissandosi nel bianco magma indistinto dell’origine, si salva attraverso il nero (il mélanos della sua scrittura).

  Scrive a questo proposito Alberto Cadioli (alla cui acuta e assai solerte diligenza di critico e di ricercatore debbo alcune delle proposte analitiche esposte precedentemente):

“Avviene così il naufragio della scrittura nel bianco ineludibile della pagina, che avvolge tanto più i protagonisti quanto più essi sono al termine della loro traiettoria narrativa. Il bianco sino ad allora contrastato dal nero dell’inchiostro [...] trionfa nella figura umanizzata di un gigante, emblema della forza acquisita ora che la scrittura si è estenuata. Doppio fantasmatico dell’autore, che ha recuperato la propria “verginità”, ineffabilità, da cui era attratto (la folle velocità), pone ora termine all’operazione di scrittura che lo contrastava, annientandola o piuttosto riassorbendola. Ma la scrittura si salva proprio testimoniando di questa sconfitta…”

(Alberto Cadioli, Bianco, Firenze, La Nuova Italia, 1998, pp.41-42).

  Allo stesso modo, nel grande romanzo di Herman Melville, l’affiorare indistinto della Balena Bianca Moby Dick rappresenta l’epifania del desiderio, dell’Altro che pur fortemente atteso si rivela, nello stesso tempo e proprio per questo motivo, una minaccia radicale all’Io narcisistico ferito nella soddisfazione del proprio bisogno libidico.

  Alla minaccia che viene dall’Altro non serve a nulla contrapporre la violenta ripulsa dell’aggressività – la salvazione dell’Io sarà soltanto il frutto di un’operazione di ricucitura dei bordi sanguinanti della soggettività offesa e avverrà attraverso un’operazione di riscrittura del trauma originario.

  E’ di questa minaccia all’Io e di questa possibile salvazione attraverso la scrittura che Melville parla nel momento in cui si ferma a riflettere sulla “bianchezza della balena”:

“E’ forse ch’essa [la bianchezza] adombra con la sua indefinitezza i vuoti e le immensità spietate dell’universo e così ci pugnala alle spalle col pensiero del nulla, quando contempliamo le profondità bianche della Via Lattea?  Oppure avviene che nella sua essenza la bianchezza non è tanto un colore quanto l’assenza visibile di colore e nello stesso tempo la fusione di tutti i colori: avviene per questo che c’è una tale vacuità muta e piena    di significato in un paesaggio vasto di nevi, un incolore ateismo di tutti i colori, che ci fa rabbrividire?”

(Hermann Melville,Moby Dick o La Balena, in Opere scelte, a cura di C. Gorlier, Milano, Mondadori, 1972, p.269).

Per Cadioli, Moby Dick diventa, per questo motivo, il gigantesco simbolo della dimensione indistinta ed equorea dell’inconscio dalla quale si può emergere solo grazie alla capacità della scrittura:

“La Balena bianca è il foglio e la scrittura, è la scia della nave, la schiuma che accompagna ogni apparizione di Moby Dick, è quel kolossos, superficie percorsa dagli arpioni, in cui Achab vede al tempo stesso l’oggetto del desiderio e la barriera metafisica che lo tiene prigioniero, il limite che deve a ogni costo superare per riacquistare la propria autenticità, al di là della finzione in cui siamo calati [...] Luogo della virtualità, della pulsionalità originaria (la sede dello sperma è configurata come un gigantesco cervello: “metri cubi del suo magazzino di sperma”, somma immensa di bianche circonvoluzioni), immersa nell’inconscio in cui si muove a  suo agio, la Balena bianca si fa anche interprete del rimosso che ritorna e che ci dice il dramma di Achab (o della scrittura?)”

(Alberto Cadioli, op. cit., pp.74-75).

   Il biancore accecante del corpo fisico di Moby Dick lo rende indistinto ed indistinguibile – il solo modo di concluderne la caccia è di inscrivere su di esso il segno tracciato dagli arpioni che in questo modo lo de-limitano, de-scrivendolo.

  Allo stesso modo, la modalità di scrittura di Candida di Antonio Spagnuolo (per tornare ormai al punto di partenza di tutte queste riflessioni) è l’unico strumento di salvazione di cui il poeta può servirsi per riscattare le potenzialità espressive del suo inconscio.

  Tali potenzialità sono tuttavia inscritte in lui stesso in maniera solo apparentemente parassitaria: liberarne le possibilità ermeneuticamente salvatrici sarà il compito della scrittura (allo stesso modo la Candida albicans, fungo imperfetto ed innocuo, diventa un parassita pericoloso e nocivo solo in determinate situazioni patologiche – solo descrivendone la patogenicità si potrà delimitarne i danni e la pericolosità possibile).

3.Il riscatto delle parole

 

  Scrive Massimo Pamio (nella sua importante monografia dedicata alla certo impressionante e mastodontica attività poetica di Antonio Spagnuolo) che Candida si inserisce nella stagione “informale” del poeta, una stagione aperta dalla raccolta Ingresso bianco del 1983 (Napoli, Glaux) e proseguita poi con Dieci poesie d’amore & una prova d’autore (Napoli, Altri Termini, 1985) e Infibul/azione (Alatri, Hetea, 1988).

 Tale stagione – che investe pochi ma significativi anni di produzione del poeta – sarebbe contrassegnata da una sorta di “resa con condizioni” del soggetto poetante al godimento errante della scrittura, alla capacità di veicolarne le pulsioni profonde attraverso una gestione delle sue forme di (auto)nascondimento e di (auto)rivelazione epifanica.

Sviluppando ed ampliando alcune delle più interessanti implicazioni ed intersezioni critiche contenute nell’Introduzione di Mario Pomilio a Candida, Massimo Pamio giunge poi ad importanti conclusioni di carattere generale riguardo alla poetica implicita nella semantica linguistica di Antonio Spagnuolo e nelle applicazioni di scrittura:

  “Più che di una “disposizione onirica”, si tratta di una ricerca dell’informe, del larvale, del temibile che stanno annidati nell’es“, ovvero di un tentativo quanto mai sintetico di far  affiorare alla superficie le tracce e i sedimenti del profondo, in virtù del processo “maieutico” della poesia, la quale sarebbe strettamente collegata con l’inconscio (l’inconscio è il luogo della poesia). E’ evidente, in queste dichiarazioni di poetica, l’influenza del pensiero lacaniano, che definisce l’inconscio “una parte del discorso concreto” – transindividuale – che viene meno alla disposizione del soggetto, per ristabilire la continuità del suo discorso conscio  [Jacques Lacan, Posizione dell'inconscio, in Scritti, vol.II, trad. it. e cura di Giacomo Contri, Torino, Einaudi, 1974, p.833 e sgg.]. L’inconscio sarebbe un sistema di lettere che, interagendo col discorso conscio, ne schiuderebbe lacune e falle, definite non solo da lapsus, sogni o motti di spirito, ma  anche tracce di iscrizioni (patologiche) sul corpo, da ricordi d’infanzia già censurati, dal vocabolario e dagli stilemi individuali, da sintagmi e movimenti che si trasformano in leggende e riti per veicolare la storia individuale. La poesia, pertanto, pullula delle cosiddette “lacune”, dei buchi neri della coscienza, degli sfaldamenti della memoria, dei lapsus e dei tic linguistici, delle incongruenze, delle crepe, delle rotture e delle distorsioni sintattiche, lessematiche e fonematiche ed ancora del gergo individuale, dei movimenti automatici o indipendenti del  corpo svincolato dalla ragione ed infine dei sogni”

(Massimo Pamio, Ritmi del lontano presente. Introduzione alla lettura dell’opera di Antonio Spagnuolo, Napoli, De Dominicis, 1991, pp.97-98 – il saggio di Pamio è, per ora, l’unica monografia dedicata a Spagnuolo e costituisce, dunque, una presenza tanto più importante quanto carente è stato finora, nonostante notevoli e pregevoli eccezioni, il panorama critico sul poeta napoletano).

 Dopo Candida, tuttavia, e dopo alcune altre significative esplorazioni e esplicazioni poetiche nella stessa direzione (Dieci poesie d’amore & una prova d’autore del 1987 costituisce, a mio avviso, una straordinaria riprova di quanto già detto per Candida, ma cfr. anche Infibul/azione del 1988 e Il gesto /Le camelie del 1992 edito dall’editore trevigiano All’Antico Mercato Saraceno, dove il procedimento poetico contenuto in Candida si riequilibra nella ricerca di una sorta di “disarmonia prestabilita”), Spagnuolo sembra imboccare altre strade fino a configurare il proprio movimento poetico come un “secondo tempo” rispetto alle soluzioni linguistiche e poematiche degli anni Ottanta.

 Proprio in Il gesto / le camelie, il poeta si lascia quasi andare ad una sorta di nostalgia per l’armonia segnica abbandonata e propone una sorta di “ritorno del rimosso” verbale ad essa:

 ”XIV. Oscillo fra un lavoro fuorisenso / e la casa in rovina, / nell’immenso scavare che circonda /  l’epilogo. / Recupero soltanto un mio momento / nel segno restaurato.// Al mio doppio / ogni finestra innesta vibrazioni./ Erano incandescenze / a strapiombo degli anni senza rupe, / un  aroma nel pube da sventrare / nutrendomi finzioni dall’informe / destino ancora da indagare. //  Spuntano le armonie senza licenza / in contrasti: / nel mio torace  sussurrato appena / la pietà di fanfare”

(Antonio Spagnuolo, Il gesto / le camelie, Treviso, All’Antico Mercato Saraceno, 1992, p.20).

 In questo suo tentativo di riportare il discorso a zero, restaurando il segno e ritrovando in esso le  vibrazioni del proprio doppio (ovvero ciò che del sé si trova nei sotterranei della mente sepolto in profondità e riemergente in maniera sussultoria ogni volta che la pratica poetica lo invoca), il poeta annuncia un nuovo momento della propria “lotta mentale” con la parola sotto il segno questa volta non tanto della distruzione del linguaggio quanto del suo riscatto sotto forma di restauro (non certo di restaurazione – ché quest’ultima sarebbe stata operazione impossibile nell’ottica di uno Spagnuolo la cui scrittura è da sempre tutta protesa a far riemergere le proprie contraddizioni e non a volerle seppellire di nuovo…).

 E, infatti, Dopo il restauro si intitola una raccolta molto importante del 1992 dove i temi e le prospettive di opere quali Il tempo / le camelie ritornano con forza e con la flagranza di una proposta nuova e interattiva con il presente della poesia:

 ”Ancora una volta il simbolo diventa parola, quella scritta e reinventata per il perdono del contenuto dei nostri pensieri e dei nostri ricordi. Non è facile afferrare il significato dei simboli  che giungono dal passato e che invadono il nostro subconscio: la trascendenza piena della realtà anima e si manifesta alterando le occasioni su piani paralleli: il dubbio della finzione, lo sgomento dell’incomprensione, contro l’immobilità e l’irrigidimento. [...] L’inconscio è il luogo della poesia e la poesia è legata all’inconscio: alla base la libido produttiva, che produce in disarmonia con il reale. La poesia coincide con l’Eros ed in esso si identifica per quella forza necessaria ad interrompere il sopraggiungere di Tanatos ed il tentativo diviene allora la forza illimitata per uscire dalla condizione umana sopravvissuta alla espressione comune e incapace di ristrettezze del prevedibile, del consumabile, dell’indicibilità politica, della mostruosità del genocidio, pronta bensì a codificare l’inesauribile volontà di ri/sistemare le azioni della carne e dello spirito”

(Antonio Spagnuolo, Pre / Testo a Dietro il restauro, Salerno-Roma, Ripostes, 1993, pp.7-8).

 La rivendicazione della forza rigenerante di Eros capace per questo di fermare e di tamponare la prepotente ascesa di Thanatos ritrova nei versi di Dietro il restauro una forza e una potenza coinvolgente e accomunante mai sperimentate precedentemente.

 Nei testi di questa raccolta, Spagnuolo si prova convincentemente a modulare i temi a lui più chiari con accenti cristallini e rigorosi:

XI. Ti specchio nell’assurdo / proposto a fermenti: / il tema staglia eguali le carezze / fra mattoni e corsie. // Dalla stazione di periferia / sboccia la notte / che ha sventrato pupille e sortilegi: / troppo in fretta l’assenza. / Porto le cicatrici confidenti / prima che affanno confermi le movenze / per quest’amore tessuto all’incontrario. // Sciogli nodi al languore: / mi regali chimere inaspettate”

(Antonio Spagnuolo, Dietro il restauro cit., p.37).

 ”Troppo in fretta l’assenza”: è il grido che fuoriesce dissennato per effetto di una volontà di bruciare le tappe, di portare a termine il prima possibile l’operazione liberatoria della parola, la sintonizzazione assoluta con il reale attraverso l’emergenza del desiderio che staziona nel profondo.

 Dietro il restauro c’è la necessità di articolare la riemergenza di ciò che si vuole mascherare e nascondere: i “nodi” che vanno sciolti sono quelli che impediscono di collegare la mente al corpo, il desiderio alla ragione, il piacere alla realtà.

 In questo modo, il rispecchiarsi reciproco di conscio e inconscio sfonderà quella parte impossibile del reale che continuamente viene restaurata e che continuamente bisogna far saltare per permettere l’emergere del godimento (che, per Spagnuolo, è la saldatura e la sintesi tra piacere e desiderio nella scrittura).

 Per questo motivo, la poesia si produce nell’eco e nel rimbalzare delle parole tra meraviglia e riscatto: la sorpresa nasce dalla capacità produttiva dell’Es, il riscatto delle parole dalla loro capacità di riproporsi come emergenze capaci di analizzare e fendere il flusso del reale per ritrovare in esso la corrente eterna e onnipotente del desiderio.

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DUE TEMPI DELLA POESIA DI ANTONIO SPAGNUOLO: “CANDIDA” E “DIETRO IL RESTAURO”. Saggio di Giuseppe Panella
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