Difficile riuscire a spiegare fino a che punto possa risultare vivificante e salubre la lettura di Colette a chi non si è mai fatto un simile regalo, ma chi ha letto anche solo Chéri, il suo romanzo più celebre, sa di che parlo. Non c’è romanzo o racconto che non mi sia goduta, non c’è frase che Sidonie-Gabrielle Colette abbia scritto che non abbia trovata ben fatta, precisa, arguta, leggera e profonda, come solo una mente illuminata può partorirne.
Ho adorato Chéri, ma anche il più amaro seguito, La fine di Chéri, ho amato Il grano in erba, censurato all’epoca della sua uscite per indecenza, mi sono rifugiata in Sido, ho letto e riletto il piccolo gioiello dal titolo Il puro e l’impuro, trovandovi sempre nuovi segreti in attesa di essere disseppelliti.
In un lungo pomeriggio domenicale di pioggia come ve ne sono stati tropppi, ultimamente, ho ripreso in mano un piccolo libro che avevo comprato su una bancarella tempo fa e stranamente non ancora aperto, l’autrice ovviamente Colette, il titolo Duo.
Duo è la storia di un tradimento scoperto, del più banale dei tradimenti, anzi, scoperto nel più banale dei modi, a causa di una lettera lasciata troppo in vista. Protagonista una giovane coppia borghese ma artistoide, lui impresario teatrale, lei costumista e scenografa, rinchiusa per qualche giorno in un castello dall’aria pesante e decaduta, prigioniera dei complicati rituali della vita in comune, ostaggio di una domestica curiosa, di un fattore ambizioso, della pioggia e del dolore che l’una ha inflitto all’altro.
Il terzo incomodo, l’amante della bella ma non bellissima Alice (la meno bella di tre sorelle, come pensa malinconicamente Michel, il marito tradito) e socio di Michel, si inserisce nella scena solo di striscio, con banali telefonate di lavoro a cui il socio continua a replicare con la solita giovialità, attento a non rivelare ciò che ha scoperto. Non è importante, in effetti, non si ha mai l’impressione che quell’uomo sia stato mai, per Alice, più che un piacevole diversivo, uno dei modi in cui una donna giovane e vivace manifesta di essere viva e ancora attratta dal mondo e dagli uomini. Nemmeno Michel, pur nel pieno della sua crisi di gelosia, dà l’idea di credere che quell’uomo abbia mai contato davvero qualcosa nell’esistenza della moglie. Tutto il suo dolore sfiora le ragioni superficiali del tradimento (l’avrà fatto obbedendo alla voce brutale del desiderio o quella più profonda di una complicità? Cosa è peggio?) per raggrumarsi attorno ai come, il corpo familiare e adorato della moglie esplorato e goduto da un altro, i suoi gemiti per un altro, il suo trasporto per un altro, è in fondo tutto là.
E Alice?
Magistrale il modo in cui la sua personalità è tratteggiata, il riguardo verso la sofferenza del marito, ma che fatica a non scivolare nell’impazienza, la paura delle sue reazioni che è autentica quanto il pensiero che non dovrebbe poi farla tanto lunga, per una simile sciocchezza, il desiderio che lui faccia qualcosa di incontrollato ma sanguigno, piuttosto, che le dia uno schiaffo o rompa una finestra, così che poi si possa tornare a ingannare piacevolmente il tempo assieme e a godere della reciproca compagnia, della buona cucina, della bellezza selvatica e carnale del giardino, del desiderio tra loro ancora vivo, archiviando un episodio così poco significativo senza insensati strascichi.
Il sano egoismo di Alice è contrapposto al pantano interiore di Michel, che soffre senza arrivare a capire cosa lo faccia soffrire di più, dell’idea che Alice sia andata a letto con un altro uomo, se è l’istinto carnale o il trasporto emotivo della moglie per un altro che più teme, o se è qualcos’altro ancora. Incapace di indagare a fondo in se stesso, Michel si affida a luoghi comuni che finiranno per farlo precipitare in un abisso di sofferenza ancora più insuperabile.
Colette però ci rende difficile simpatizzare con lui; è di gran lunga più piacevole restare in cucina con le donne che si capiscono a mezze frasi e occhiate, piuttosto che seguirlo nelle sue autoflagellazioni interiori, e persino dopo il tragico finale non si può smettere di domandarsi se davvero tutto questo dolore fosse inevitabile e necessario.
Colette contrappone allo sterile dramma del possesso, a cui si fatica a dare un altisonante nome a cinque lettere, il rigoglio della natura che si riprende gli spazi che gli uomini hanno provato a sottrarle, generosa con chi sa viverla e goderne la grazia e implacabile con chi è troppo corrotto dalla ‘civiltà’ per farsi toccare dalla bellezza.
Così possiamo immaginare che la bella Alice, semplice come un animale che non vuole il male di nessuno, ma solo, al limite, il proprio bene, alla fine sopravviveraà a tutto, anche al senso di colpa, cullata da quella natura sorella e complice di cui non ha mai smesso di abbeverarsi, nemmeno da dietro le finestre di claustrofobici interni borghesi. E pensare che in fondo sia giusto così. E che certi cassetti è il caso che restino chiusi, e che chi li apre lo fa a suo rischio e pericolo.
Tuttavia lui non aprì subito la cartellina porpora, e Alice ebbe il tempo di leggere in Michel un vile desiderio assolutamente identico al suo, il desiderio di chiudere il cassetto, correre e riafferrare un attimo che fuggiva e li lasciava paralizzati, dimenticati, immobili, l’attimo in cui Michel aveva parlato del riflesso porpora sulla guancia di Alice. “Adesso gli griderò: è solo un gioco! Prenderò la cartellina, mi correrà dietro e…”
Michel, con la testa vicinissima al seno accalorato di Alice, interrogò pavidamente: “Cosa c’è, dentro?”