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È ancora possibile scrivere fantasy?

Creato il 28 novembre 2014 da Rivista Fralerighe @RivFralerighe

Rubo per quest’occasione, mutatis mutandis, il titolo del celebre discorso di Montale per il conferimento del premio Nobel. Naturalmente ci spostiamo sul nostro ambito d’interesse, tenendo d’occhio una fondamentale differenza: il problema del fantastico non riguarda i tempi che cambiano, ma il fantastico stesso.

Abbiamo assistito a una sorta di rinascita del fantasy a partire – a grandi linee – dalla metà degli anni novanta. Abbiamo avuto questa percezione di risollevamento dalla nicchia in cui era precipitato, e che fosse un lento risalire verso la luce. Sia nell’ambito scrittorio che per i lettori, ancora oggi c’è questa sensazione che il fantasy sia il genere che vende. Forse è stato così dai venti ai dieci anni fa. Forse, ancora ancora, fino a tutto il primo decennio del 2000. Ma oggi è solo un’impressione.
E non potrebbe essere altrimenti. Il mainstream – come oggi definiamo il genere realistico – è, in traduzione, il flusso principale, ovvero il filone che vende di più, che si legge di più. È sempre stato il realistico, anche all’inizio degli anni 2000, anche quando il cinema si è ricordato di Tolkien, Lewis, e ha tentato di fare di ogni fantasy di successo un filmone da super-incassi.

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Non so bene da dove sia nata quest’illusione. Forse dall’impatto pubblicitario e mediatico, dal fatto che gli editori abbiano puntato per un decennio sul fantasy, abbiano visto in esso un cavallo vincente. Ma oggi questo cavallo è invecchiato troppo. Va avanti per scommesse pilotate: il fantasy classico, poi i baby-scrittori, poi il romance sovrannaturale con vampiri o angeli, poi l’urban fantasy, poi le distopie. Mi scuseranno i tassonomisti dei generi se includo le distopie nel fantasy, quando normalmente vengono associate alla fantascienza. Ma in questo discorso non mi occupo di critica letteraria, ma di percezione, quasi sociologia della letteratura. E se ci lasciamo per un istante le classificazioni alle spalle, noteremo una strada delle mode del fantasy che include anche le distopie.

Questo procedere per esplosioni commerciali – sempre di minor durata – è un cappio al collo del fantasy. Il genere che più di tutti nasce per sperimentare e sorprendere viene ora rinchiuso in scatole cinesi di dubbia utilità, se non quella di fornire al lettore di bestseller una serie di libri sostanzialmente identici, così che possa mantenersi al sicuro del suo schema esperienziale.
Naturalmente la trasformazione del libro in merce non riguarda solo il nostro genere, e sarebbe troppo lungo affrontare in questa sede come la selezione dei manoscritti abbia via via perso ogni connotato letterario e assunto sempre più impronte economiche e commerciali. Tuttavia nel fantasy, proprio per quella sensazione di cui si parlava all’inizio, tutto questo è più evidente. Non solo perché è il genere in cui si cimenta buona parte delle nuove leve, spesso con risultati disastrosi che abbassano ancora di più il livello già infimo del fantasy contemporaneo, ma anche perché resta un punto di riferimento per quella generazione che ha cominciato a leggere nell’ultimo ventennio.

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Allora affrontiamo – brevemente, per quello che è lo spazio di un articolo digitale – i problemi sostanziali: mancanza di fantasia, inserimento in categorie di comodo, fonti letterarie comuni, incapacità.
Non sarà necessario dilungarsi: la mancanza di fantasia è il segno più evidente del decadimento del fantasy, ed è direttamente collegata alla presenza nell’immaginario comune delle stesse fonti letterarie. Quanti romanzi di elfi e nani dovremo ancora sopportare? Quanto a lungo l’eco tolkeniano sarà distorto dall’incapacità di innovare? Purtroppo non ci vorrà molto prima che un nuovo modello prenda il sopravvento, e buona parte della produzione si sposterà a seguire il nuovo pastore. Forse si tratterà, a giudicare dai migliori fantasy in circolazione al momento, di un low-fantasy con sfumature politiche: Martin, Abercrombie e, allontanandoci un po’, Sanderson.
A questo segue l’inserimento in categorie di comodo. Mi capita spesso di parlare con scrittori più o meno in erba e di sentirli parlare per schemi. Non scrivono storie, scrivono categorie: un fantasy storico con sfumature dark; un urban fantasy sugli angeli, uno sword & sorcery d’ispirazione howardiana. Gli scrittori d’oggi si muovono su queste caselle ben definite, create dalle generazioni che li hanno preceduti, senza provare l’ebbrezza dell’innovazione. Sembra che, ancora una volta, si sia ricaduti sulla mancanza di fantasia.
E a questa non è difficile collegare l’incapacità. Non solo, certo, di innovare, ma anche di concretizzare. Molte delle nuove leve – per colpa della percezione errata dell’era di internet, dove tutto sembra a portata di mano – semplicemente scrivono, senza sapere nemmeno come si fa. Sia chiaro, non mi riferisco ai manuali di scrittura creativa – la cui utilità è, almeno per un buon 80% dei testi, assai dubbia – ma al semplice rapporto con la storia, con i personaggi, con l’idea che la letteratura ha diversi livelli semantici da sfruttare, con la grammatica. Mancano le basi: come se io, oggi stesso, prendessi in mano un pennello e dipingessi su una tela una linea curva. Ecco, osservate tutti: sono un pittore.

E dunque, ho aperto questo lungo monologo con una domanda: è ancora possibile scrivere fantasy? Ho posto la domanda, ho argomentato, ma non mi sembra di aver promesso una risposta. Se dovessi rispondere in totale onestà, forse direi: Non così. Se questo è tutto il fantasy di cui la modernità è capace, allora è solo il vano tentativo di tenere in vita un moribondo. È un flusso sterminato di inutilità, corredato da appena una manciata di ottime eccezioni.
Se il gioco vale la candela? Non lo so, ma sembra proprio che la cera stia per finire.

Maurizio Vicedomini



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