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È cool dirlo in inglese? Anglismi invadenti

Creato il 10 aprile 2015 da Temperamente

L’italiano sarà pure la lingua di Dante, ma al giorno d’oggi sono in pochi a resistere alla tentazione di “dirlo in inglese”: così, termini ed espressioni che il nostro idioma annovera fra le proprie risorse da tempo immemorabile vengono spudoratamente ignorati, preferendo i loro alter ego inglesi. Ecco allora che l’intimo diventa underwear, i truccatori dei make-up artist e i marchi dei prodotti sono dei brand.

Campi come informatica e nuove tecnologie in genere, poi, sono notoriamente dominati da colossi statunitensi e ciò favorisce la diffusione spontanea di termini inglesi per designare gli apparecchi che, nella realtà di tutti i giorni, ci ingombrano tasche e borse: il tablet, lo smartphone, l’e-reader, il notebook e compagnia sono tutti ritrovati della tecnica ideati al di là dell’Atlantico, ed è praticamente un riflesso naturale conservarne la terminologia originaria. D’altronde l’inglese ci aveva già conquistati tecnologicamente con Internet e le e-mail, per cui a tradurre lo smartphone con qualche neologismo del tipo di “intellifonino” o simili, non ci ha pensato proprio nessuno; inoltre, nel mondo commercialmente globalizzato in cui viviamo, accogliere scoperte e innovazioni con tanto di nome già affibbiato è diventato la prassi… soprattutto se si tratta dell’inglese.

L’ovvia supremazia targata USA del mondo economico in generale, però, non riesce a giustificare la presa di posizione linguistica di molti che, pur avendo la possibilità di esprimere lo stesso concetto in una lingua lessicalmente ricchissima come l’italiano, scelgono di affidarsi a un anglismo (o anglicismo, che dir si voglia) più o meno equivalente.

E se parecchi liquidano la strabordante presenza degli anglismi in italiano come un non-problema, moltissimi scrittori, traduttori, giornalisti e intellettuali di ogni tipo hanno aderito con grande entusiasmo alla petizione “Dillo in italiano”: l’iniziativa, che raccoglie le firme illustri di scrittori e giornalisti come Michele Serra e Massimo Gramellini, nonché l’appoggio dell’Accademia della Crusca, ha l’obiettivo di promuovere un uso meno gratuito di anglismi e forestierismi (ovvero termini in lingua straniera).

accademia della crusca

Naturalmente, non si sta parlando di “riconvertire” all’italiano termini ormai entrati abitualmente nel lessico comune, come “pullman” o “computer”; echi di mussoliniana memoria, insomma, sono ben lontani dalle intenzioni dei firmatari della petizione, il cui obiettivo è semplicemente quello di salvaguardare il tesoro inestimabile e prezioso che è la nostra lingua.

Per offrire un’idea più concreta di quali siano le circostanze in cui di anglismi faremmo volentieri a meno, ecco una carrellata di esempi.

Brand: equivalente inglese di “marca”, intesa come la marca di un prodotto.
“Il costo è tanto elevato perché paghi il brand”. Che è la marca, appunto. Né più, né meno.

Plot: “trama”, intesa come la trama di un libro o di un film.
“Questo romanzo ha un plot davvero avvincente”. E anche la trama non è male, bisogna dire.

Form: “modulo”, inteso come documento da compilare.
“Compili il form, per favore”. Che sia di form rettangolare o quadrata, sempre di un modulo si tratta!

Shopper bag: “sacchetto per la spesa”, inteso come… sacchetto per la spesa.
“Le do uno shopper?”. Non saprei, suona più come una minaccia che come una cortesia.

Countdown: “conto alla rovescia”, come quello che facciamo a Capodanno con la bottiglia di spumante in mano.
“Il countdown per Natale è appena cominciato”. Vero è che comprare i regali a ridosso del Natale non piace a nessuno, ma suona più melodrammatico di quello che è.

Overbooking: “sovraprenotazione”, che si verifica quando i posti prenotati (per esempio in aereo) sono superiori a quelli effettivamente disponibili.
“Mi dispiace, c’è stato un caso di overbooking”. Santo cielo: è contagioso?

Gallery: “galleria”, l’insieme delle foto che possono essere visionate su un sito, per esempio.
“Hai già sfogliato la gallery?”. Andiamo, risparmiare su una vocale sola è da tirchi.

 Rumor: “voce”, nel senso di “voci di corridoio”.
“Secondo molti rumors, l’attore sta per abbandonare la serie”. Sarà per il chiasso continuo, poverino.

(Piccola parentesi: in italiano i forestierismi sono indeclinabili. Rumor dovrebbe restare rumor, e non acquisire la “s” che distingue il plurale inglese e diventare “rumors”. La confusione, a tal proposito, regna sovrana).

Cookies: “biscotti”. Sì, sono biscotti. Che si mangiano.
“Ho cucinato degli ottimi cookies”. In una kitchen (“cucina”), suppongo.

Advertising: “pubblicità”, che detto tra noi è molto più facile da dire.
“È un mago nel settore dell’advertising”. Poteva occuparsi di pubblicità, ma ha voluto fare il complicato.

Stylist: nell’accezione più comune sostituisce la parola “stilista”.
“È uno stylist fantastico”. Ci sa fare addirittura come stilista.

Romance: nato come genere letterario, in italiano sostituisce molto spesso le parole “storia d’amore”.
“Il romance tra i due protagonisti del libro è commovente”. Tranquilli, si amano anche in questo caso.

 Topic: “argomento”, come può essere l’argomento di una conferenza, per esempio.
“Di quale topic ci occupiamo oggi?”. Niente che abbia a che fare con i ratti, per cortesia.

 Underwear: letteralmente “vestire sotto”, vuol dire “biancheria intima”.
“Il negozio ha esposto una nuova collezione di underwear femminile”. E le classiche mutande della nonna riacquistarono dignità.

Team: “squadra”, sia sportiva che di collaboratori. Si dice team in tutti e due i casi, e si traduce “squadra” comunque.
“Ho un ottimo team di collaboratori”. Saranno altrettanto bravi con un nome meno esotico.

Camping: “campeggio”, nel senso dell’attività del campeggio, non del luogo dove si campeggia.
“Ho comprato delle nuove attrezzature per il camping”. Camping cavallo, che l’erba cresce.

Il fatto che gli equivalenti sopra riportati risultino addirittura foneticamente simili suggerisce delle importanti riflessioni: per quale motivo utilizzare termini stranieri così simili a quelli già esistenti in italiano? Effetto linguistico della globalizzazione, tentativo di rendere il contenuto di una frase più interessante o seducente trasformandone la forma, o vezzo passeggero? Probabilmente una commistione di tutti e tre i fattori, con la prevalenza dell’uno o dell’altro a seconda del contesto e delle circostanze. In ogni caso, è innegabile che l’inglese eserciti un fascino particolare in più di un settore: dalla moda al tempo libero, dalla tecnologia alla televisione, dal mondo degli affari a quello dell’intrattenimento, tutto sembra più fresco solo se cool.

Ma se il richiamo della lingua di Sua Maestà è spesso irresistibile, affascinando orecchie e corde vocali… è proprio necessario dirlo in inglese? A voi la scelta.


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