E #dilloinitaliano!

Creato il 18 marzo 2015 da Athenae Noctua @AthenaeNoctua
Io e le mie crociate linguistiche. Che chiamarle crociate è già sbagliato, come a dire che sono inutili e che hanno una base opportunistica e pretestuosa. Io e le mie lotte contro i mulini a vento, forse. Perché, un po'come Don Chisciotte, anch'io mi ritrovo in un mondo che rifugge i miei ideali e respinge chi si nutre di letteratura. E la questione linguistica è uno degli effetti di questo deprezzare quella bella espressione che non solo la letteratura, ma anche la dignità culturale ci insegnano.  Negli ultimi anni, in Italia, l'italiano risulta simpatico e tollerato quanto le zanzare che d'estate ci ronzano attorno al cuscino. Ai rappresentanti della politica e dell'informazione il nostro idioma nazionale sembra non andar proprio giù, perché, quando non violentano la lingua con orrori del tipo «a me colpisce» (ignorando che "colpire" sia un verbo transitivo) o il "piuttosto che" equiparato alla congiunzione "e", sostituiscono una parola su due con termini stranieri, prevalentemente inglesi. E allora via di spending review, governance, partnership e job-act come se piovesse! Questa scelta di sacrificare l'italiano ad un impasto spesso spropositato di termini inglesi non risponde neanche ad un progetto di tecnicismo, quanto al desiderio di far tendenza, di apparire moderni (e giusto un tantino snob). Una cosa nauseante, non diversa, negli effetti, dalle desolate situazioni alla Sepolti in casa: siamo immersi in melasse di parole ed espressioni che spesso hanno più volume in significante che in significato. Per questo politicanti, giornalisti e ormai anche coloro che da essi sono contagiati sfoggiano con compiacimento di terminologie che assorbono ma non assimilano, dato che, spesso, non ci si rende conto che «revisione della spesa» non è più economico del suo equivalente inglese. Ma c'è di peggio: spesso le parole italiane che sfrattiamo imponendo equivalenti stranieri hanno una profondità di significato e sfumature tali che l'inglese può solo sognare. Non intendo certo dire che la lingua di Shakespeare sia brutta, inutile o povera, ma solo che dobbiamo smettere di svalutare i tratti della cultura italiana in nome di una presunta autorità anglosassone. Vero è che certe discipline hanno un lessico specifico ineludibile, dall'informatica, di fronte alla quale non possiamo certo sostituire il "topo" al "mouse" a certi settori dell'economia e della statistica, ma questo perché si tratta di tecnicismi al pari di un "allegro" nelle partiture internazionali o di un "arabesque" nel lessico della danza.
Passino le mode gergali e le fraseologie da social-network in voga soprattutto fra i giovani (i quali, comunque, hanno in ogni epoca storica un loro linguaggio caratteristico), ma trasferire o ampliare forme tecniche in contesti diversi da quelli di origine o, peggio, abusare di termini stranieri in contesto d'uso generico in luogo di quelli autoctoni, a lungo andare, produce oscuramenti di significati, travisamenti e confusione.
Mi mette particolarmente a disagio vedere l'applicazione di termini inglesi - tutti di derivazione finanziaria - alla pedagogia, alla didattica e alla scuola: il preside diventa il dirigente-manager, gli studenti lavorano sul problem-solving e guai a dire "lavoro di gruppo", perché è "cooperative learning" la formula di tendenza (e se mi si fanno notare le differenze fra lavoro di gruppo e cooperative learning, rilancio dicendo che comunque l'inglese è perfettamente traducibile senza intaccare la divisione dei concetti), mentre la progettazione collegiale diventa programmazione in team. Anche se gli scenari delle teorie dell'istruzione spingono forse in altra direzione, le scuole non sono aziende. Sostituire i significanti (le parole) vuol dire intaccare a poco a poco i significati: siamo già arrivati al punto che le bocciature e i cattivi voti sono umiliazioni in un sistema che accentua sempre più la competizione, proprio come sul mercato... di questo passo, arriveremo ad una perversa sintesi dei concetti di successo scolastico, ascesa di carriera e valore personale. Tutto in vendita.
Paradossalmente, mentre noi sostituiamo il cognitive-style allo stile cognitivo, Inglesi e Americani preferiscono la forma mentis, mentre calpestiamo l'imparare facendo con lo stivale del learning-by-doing i nostri colleghi d'oltremanica e d'oltreoceano viaggiano con il discere faciendo, dimostrando di apprezzare la pregnanza dei concetti nella lingua in cui sono nati... che è alla base della nostra.
Invece noi diciamo che studiare il latino è inutile e che l'italiano non può reggere il passo nell'era della globalizzazione. Mettere da parte l'italiano è un suicidio culturale, al pari di lasciar crollare Pompei o di coprire il David di Michelangelo con un drappo di seta: nobile tessuto, certo, ma che ci impedisce di apprezzare la grandezza dell'arte che giace sotto di esso. 

Claudio Marazzini


Per tutti questi motivi (che si riferiscono non all'uso, ma all'abuso di terminologie straniere spesso decontestualizzate rispetto al valore originario) ho accolto con favore l'iniziativa #dilloinitaliano, la petizione lanciata su Change.org per sensibilizzare al valore dell'uso delle parole italiane e alla perfetta unione, nella nostra lingua, di bellezza e funzionalità. La petizione, indirizzata all'Accademia della Crusca, ha avuto successo, al punto che il 9 marzo il presidente Claudio Marazzini ha inviato una lettera comunicando una serie di iniziative per orientare gli Italiani nella scelta di sinonimi italiani rispetto ai più modaioli inglesi (anche attraverso la creazione di un Osservatorio sui neologismi incipienti) e per invitare il Governo, le Pubbliche amministrazioni e i professionisti dell'informazione ad un più consapevole uso della lingua italiana.
Speriamo davvero che questa mobilitazione comune serva a restituire alla nostra lingua la dignità che merita.
C.M.

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