Cosa faresti se sapessi quanti giorni ti separano dalla fine? Ad Avila, un paese di una Langa verde e assolata, orlata di filari di vite sono iniziati i festeggiamenti di Santa Eurosia, la custode dei frutti della terra. Il vino scorre generoso, i volti contadini, vecchi e giovani, sono lievi, distesi. Ma il telegiornale dà una notizia che lascia tutti nello sgomento. Nella confusione. Il sole sta finendo la benzina e tra poco tutto sarà nel buio.
È chiaro che se se ne parla alla televisione i giorni rimasti non sono moltissimi, sennò non ci sarebbe il motivo di seminare il panico tra le persone. Dopo poco, si chiarisce anche quanti siano, perché una specie di calendario dell’avvento si materializza sul muro di casa del vecchio Toju, che tutti i giorni, dal primo all’ultimo traccia una X su quel che è andato, e su quel che resta.
Dunque, cosa faresti se sapessi quanti giorni ti separano dalla fine? Ad Avila ci si interroga, non ci si crede o si fa finta di non crederci, si piange, si cerca il conforto della fede, di un abbraccio, di un viso, Vitale, che la fine non la vedrà perché morirà prima che avvenga, dice: «Spesso ho avuto più paura della vita che della morte» e continua a lavorare nelle sue vigne, nell’attesa. Nessuno, anzi quasi nessuno, prende e scappa (le Fiji, l’Antartide, l’ipotesi del viaggio che non hai mai fatto non viene presa in considerazione). La comunità è sconvolta, sì, ma i bambini continuano ad andare a scuola, i vecchi a giocare a scopa, i giovani a bere birra, le signore a farsi la messinpiega o a preparare i tajarin all’uovo, le giovani coppie ad amarsi, progettando figli che non arriveranno mai. Le attività quotidiane non subiscono troppi scossoni.
Il cedro del Libano di La Morra. Ph. Corrado Morando
I sentimenti sì. Davanti all’idea della fine, ciò che più conta sembra l’idea di rinsaldare legami, di dare pace ai rimpianti, di salutarsi per bene, anche coi morti del cimitero. Quello che più conta sembra essere interrogarsi a fondo, cercare una profondità di rapporti di cui, forse, i ritmi veloci della vita di oggi ci stanno privando. I sentimenti, davanti all’idea della fine, acquistano una purezza luccicante, nel bene e nel male. È come se non ci fosse più spazio per la menzogna. Come se ognuno, a un appuntamento così importante, volesse arrivare così come ha sempre voluto essere.
Ieri E fu sera e fu mattina l’ho visto al Reposi a Torino, dove rimarrà ancora fino al 19 di marzo. E me ne sono innamorata per molte ragioni. Innanzitutto perché è un film bellissimo, poi perché il regista, Emanuele Caruso, è un giovane coraggiosissimo, che ha sfidato l’idea di lavorare senza avere le spalle coperte da una produzione milionaria e da una distribuzione organizzata. È un film prodotto dal basso, grazie alle molte persone che hanno aderito all’iniziativa di crowdfunding senza neppure sapere cosa ne sarebbe venuto fuori e grazie a tutti quelli che ci hanno lavorato, magari di notte, magari dopo il loro lavoro “vero”, regalando all’idea quel che più conta, il loro tempo. È un film che parla tanto in piemontese, ma che per fortuna ha anche i sottotitoli, per chi come me il piemontese non lo capisce. Ed è un film che mostra i luoghi che amo. Perché anche le colline di Langa hanno una loro grande bellezza.
C’è una dimensione corale, nella realizzazione di questo film, un senso di comunità che è bellissimo. E che tutti dovremmo promuovere. Se ci è piaciuto. Se vogliamo che anche i film prodotti dal basso, e bellissimi, abbiano spazio nelle sale. E se, ogni tanto ci chiediamo il valore del nostro tempo. E della nostra vita.
E fu sera e fu mattina
Regia Emanuele Caruso; soggetto Beppe Masengo, Emanuele Caruso; sceneggiatura Marco Domenicale, Emanuele Caruso con la collaborazione di Cristina Cocco; produzione Roberta Lampugnani, Deborah Sandri, Elisa Conti, Beppe Masengo; direttore della fotografia Cristian De Giglio; musiche Remo Baldi; attori Albino Marino, Lorenzo Pedrotti, Sara Francesca Spelta, Simone Riccioni, Francesca Risoli, Nicola Conti, Paola Gallina, con la partecipazione speciale di Giovanni Foresti.
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