Proponiamo l’articolo tratto dal blog di Ennio Franceschini, del 29.01.2011.
E’ il 1989 del Medio Oriente?
Due editoriali sul Times di Londra esprimono quello che forse passa per la mente di milioni di persone in queste ore, davanti alle immagini in tv della capitale del mondo arabo, il Cairo, attraversata da orde di gente che vuole “la rivoluzione”. Stiamo assistendo, si domanda il quotidiano londinese, “al 1989 del Medio Oriente”? E’ impossibile non provare un senso di deja vu, nel vedere che la rivolta iniziata a Tunisi ha contagiato l’Egitto e forse continuerà altrove, nello Yemen e in Giordania, in Algeria e in Marocco, in Libia e in Siria. Il parallelo è con la caduta del muro di Berlino, quando uno dopo l’altro i paesi dell’Europa Orientale, tenuti per decenni sotto il tallone di ferro del comunismo sovietico, si rivoltarono contro i regimi locali e contro Mosca, riconquistando libertà e indipendenza. Il giovane tunisino che si è dato alle fiamme, la scintilla che ha acceso la rivolta in Nord Africa, viene paragonato dai media britannici al movimento di Solidarnosc in Polonia, dove cominciò la rivoluzione democratica dell’Europa dell’est. Il rischio, naturalmente, è che col senno di poi venga paragonato a qualcos’altro: a Jan Palach, lo studente cecoslovacco che si immolò bruciandosi vivo nel 1969, per protesta contro la repressione dei carri armati del Cremlino, mandati a schiacciare nel sangue la breve “primavera” di Praga.O che la rivoluzione in corso in Tunisia e in Egitto, se pure avrà successo, apra la strada a qualcosa di peggio dei regimi dittatoriali che sono esistiti sino ad ora nella regione mediorientale, l’ultima non ancora toccata a sufficienza da modernizzazione e globalizzazione: l’instaurazione di autocrazie estremiste islamiche, sul modello dell’Iran, un altro paese in cui cadde un tiranno amico dell’Occidente, lo Scià di Persia, per lasciare spazio a un tiranno ancora peggiore, l’ayatollah Khomeini, “causa di tutti i conflitti degli ultimi vent’anni in quella parte del mondo”, scrive il Financial Times. Circolano anche previsioni o perlomeno speranze più ottimistiche. Roger Cohen, columnist dell’Herald Tribune, edizione internazionale del New York Times, si augura che la Tunisia e l’Egitto possano diventare “la Turchia del mondo arabo”, democrazie dove l’islamismo è parte di un mosaico elettorale e non una minaccia, così rivelando che ”lo stanco refrain di tutti i despoti arabi, secondo cui essi sono l’unico muro contro l’islamismo estremista, è una menzogna utile solo a loro stessi”. Certo, nelle dichiarazioni dei leader occidentali si avverte il desiderio di appoggiare rivolte che difendono i valori universali di libertà, insieme alla paura di abbandonare i “dittatori amici” per ritrovarsi magari, fra sei mesi o un anno, con dittatori nemici al potere al Cairo e in altre capitali del Medio Oriente. E’ per questo che, finita l’era coloniale e cominciata la guerra fredda, l’America e l’Occidente nel suo complesso hanno appoggiato strenuamente i Mubarak e i Ben Ali, tiranni fedeli a Washington e ostili alla Jihad. Ciononostante, le rivelazioni pubblicate oggi dal Daily Telegraph sembrano indicare che anche negli Usa, il paese che dà 1 miliardo e mezzo di dollari l’anno di aiuti a Mubarak (il secondo maggiore recipiente di assistenza americana, dopo Israele), esistevano taciti dubbi sulla giustezza di una simile strategia: secondo i cablogrammi di Wikileaks, l’amministrazione Usa ha aiutato in segreto alcuni dissidenti egiziani e da loro aveva saputo già nel 2008 che si preparava la rivolta di questi giorni. Il problema di sostenere tiranni amici come baluardo contro la Jihad islamica è che questi regimi diffondono povertà, corruzione e rabbia: esattamente gli ingredienti di cui ha bisogno l’estremismo islamico per prosperare e per crescere.
Segnalazione a cura di Gianluca Brembilla.