Non è agosto. E’ una nuova primavera. Quei primi giorni delle Classiche che il tempo bisogna giocarselo a dadi la mattina, quando il cielo è tra il bianco e il grigio e il sole è un disco sbiadito dietro le nuvole. Forse pioverà o forse no. E’ il Belgio, con le sue case ancor più vivide per la pioggia. I mattoni ancor più rossi, gli infissi delle finestre ancor più bianchi, la strada ancor più nera.
E’ l’Eneco Tour, corsa senza gloria prima, resuscitata dalle côtes e dai muurpoi. Picchi cardiaci in un tracciato uguale a sé stesso. Il sangue è ricominciato a scorrere. Come scorre l’acqua sull’asfalto. Viene giù dal cielo. I belgi sentono l’odore delle cose di casa, gli angoli più duri dove bisogna stare zitti e resistere e quelli dove si può attaccare senza ammazzare troppo le gambe.
Senza casco e senza occhiali Tim Wellens ha la faccia di un ragazzino del Nord in vacanza. Occhi azzurrissimi, capelli biondi e sorriso appena accennato. Qui sotto questa pioggia ha il casco e gli occhiali scuri. Ed è solo un fiammingo magrissimo, piegato con eleganza sul manubrio. I guantini miracolosamente bianchi in mezzo a tutta quella pioggia un po’ diritta un po’ di traverso.
Dietro, le luci delle moto disegnano le sagome dei due inseguitori sotto gli alberi scuri delle côtes. Greg Van Avermaet, fiammingo pure lui e Simon Geschke. Due che attaccano e attaccano ancora. E’ nei loro geni. Scorre e si mischia al sangue del nord.
Davanti ci sono quei chilometri che aspettano sotto la pioggia. Tim non si scompone. Pedala come se niente del resto lo toccasse. Vola con le spalle ampie e ferme. Vola con le gambe su quella strada che sembra un lungo serpente dalla pelle lucida e scivolosa.
Sulla divisa fradicia dove il rosso è un po’ più spento c’è quel quadratino bianco con il numero uno che si intravede un po’ offuscato nel grigio del pomeriggio.
Il Belgio, ecco cos’è. Non sai mai cosa ti aspetta.
Strade che impari a memoria ma non sono mai abbastanza.
Fai fatica davanti o in fondo allo stesso modo. Fai fatica più di quanto si creda. Stare in gruppo non serve a granchè.
Fa male ovunque.
Una spina nel fianco.
Eppure riesci ad amarlo tanto quanto lo odi. Perché ancora non si sa come possano cambiare quelle campagne tranquille ad un solo passaggio. Forse si sente l’odore della pioggia che si mischia alla polvere della terra e allora tutti sono consapevoli che da lì sarà come entrare in battaglia. Con sé stessi e con gli altri. Con gli altri e con sé stessi. Senza una tregua.
E la pioggia di nuovo. I due recuperano. Il cielo si fa buio e poi più chiaro. La penultima côte. Tim sa che lì deve rilanciare. I due dietro si alzano sui pedali. Ma sono stanchi, lo dicono i loro profili tesi, le bocche aperte dallo sforzo. Il sudore evapora caldo e la pioggia lo placa all’istante
Tim è tranquillo.
L’ultima curva, gli ultimi metri, una leggera smorfia per quelle ultime pedalate senza riserva e poi via le mani dal manubrio, un bacio e le braccia al cielo. Contro la luce delle moto ci sono le gocce che cadono senza sosta. Lui ha di nuovo quell’espressione da bambino.
Là fuori ci sono i ragazzi che arrivano a manciate e in pochi secondi si aggrappano ai giubbini asciutti. Ora il sudore impastato alla pioggia mette i brividi. Ora il Belgio è entrato nelle ossa assieme al diluvio. Né la doccia, né la cena riusciranno a sbiadirlo. Avrà la stessa faccia domani mattina. Quel cielo tra il bianco e il grigio, il sole come un disco senza colore dietro le nuvole.
E i ragazzini si metteranno il casco e gli occhiali scuri e ridiventeranno uomini.