Era un giorno di luglio come tanti. Ore 10 di mattina, il ristorante dove lavoro ancora deserto e fuori un sole che prometteva bene. Io ero seduta ad un tavolo e con tablet alla mano sfogliavo le news su Flipboard ascoltando Nives di Radio Cortina sgranare gli eventi di una valle che non mi appartiene. Tutto normale, insomma.
Mia madre, intenta a lucidare l’acciaio del bancone, canticchiava una canzone del Coro Agordo con un filo di nostalgia.In cucina, mio fratello metteva sul fuoco la polenta.
…
Ad un certo momento, si è sentita una voce affettuosa come di nonna esclamare: “Che gioia, signora!”.
Una vecchietta dal viso vissuto e dolce era entrata nel bar, con un sorriso che avevo visto prima solo sulle foto dei bambini africani. Un sorriso vero, pieno, gioioso.
Mi sono chiesta subito, naturalmente, che cosa avesse da sorridere tanto, come mai fosse così contenta e gioiosa da urlarlo alla gente.
Sono subito scappata. Non perché non volessi scoprire il motivo di cotanta gioia, bensì perché ne sono allergica. Credo di avere un problema con la felicità, mi intimorisce, la cerco, la trovo e la fuggo.
Quando sono tornata, mia madre ha detto alla signora che sono sua figlia e lei, guardandomi negli occhi, mi ha detto: “… e l’affetto continua!”.
Non ho mai incontrato in vita mia una persona così capace di farmi tremare. L’unica cosa che ho saputo fare, è stato sorridere. E credo fosse proprio quello che voleva da me, un sorriso.
Andandosene, mi ha promesso che avrebbe pregato per me e che mi avrebbe pensata tanto.
Non importa se lo farà realmente, non importa se ci ha presi tutti per il culo con le sue belle parole. Non importa perché comunque vada a finire, quella signora trasmetteva gioia e me ne ha promessa un po’. Mi ha regalato speranza a piene mani.