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Due settimane fa sono state sessanta primavere per Vasco Rossi, l’unica vera leggenda rock italiana. E con questo incipit mi gioco la simpatia dei fans di Ligabue, anche se sinceramente ho sempre pensato che la rivalità tra i due sia un’invenzione giornalistica. Comunque sia, rispetto per il lavoro del Liga, ma Blasco è Blasco. Ho avuto modo di assistere a concerti di entrambi. Non c’è partita. L’adrenalina che trasmette l’artista di Zocca ti rimane in corpo per una settimana. L’unica similitudine possibile riguarda semmai la rispettiva recente produzione, che non mi sembra all’altezza degli anni d’oro. Ma questa è un’impressione personale, alimentata forse anche dall’età, che non è più quella in cui Ogni volta e Canzone (la mia preferita) accompagnavano le mie giornate. Non so dire se sono io ad essere invecchiato, se Vasco si è imbolsito, o se siamo tutti e due da rottamare. Fatto sta che mi sono fermato all’album Nessun pericolo per te (1996). Da lì in avanti, credo sia diventato un altro Vasco, un po’ monumento di se stesso, al quale non sono più riuscito a stare dietro. Nonostante diverse altre belle canzoni e una presenza scenica sempre in grado di suscitare intense emozioni.
L’ho “conosciuto” attorno ai 12 anni. Me lo “presentò” alla sala biliardi di mio padre un ventenne, tirando fuori dal taschino del giubbotto di jeans la musicassetta di Non siamo mica gli americani, album inciso almeno cinque anni prima e celebre per Albachiara. Aveva già fatto in tempo a classificarsi penultimo (!) al Festival di Sanremo con Vita spericolata (1983), ad essere arrestato per droga (1984) e ad accrescere a dismisura la fama di esempio da non imitare. Con Luis cominciammo a comprare le sue musicassette (Carosello, dalla caratteristica custodia arancione), ma poi acquistammo anche i dischi, perché il vinile è uno stile di vita. Nella nostra classifica “rossiana” del tempo, per me al primo posto c’era Albachiara; per mio fratello, che è sempre stato molto più rock di me, Siamo solo noi, compreso il dito medio sbattuto in faccia al mondo. In camera avevamo un poster che lo ritraeva nella sua classica posa, con una mano appoggiata sull’asta del microfono. Non chiedetevi quante locandine ci fossero nella nostra stanzetta. Tanti. Pink Floyd, James Dean, Rambo, Bruce Springsteen, Rummenigge, un boxer (che anticipò l’arrivo di Eros) e altre che “ruotavano”: Maradona, per esempio, che adoravo nonostante la mia fede nerazzurra. A differenza della Juve di Platini e Boniek (mamma) e del Milan di Sacchi (Mario), che pure ho dovuto tollerare, attaccati accanto allo sguardo triste di Ayrton Senna. E fortuna che avevamo la possibilità di dirottare nella sala biliardi tutto il resto: l’Italia Mundial ’82 (in cornice), l’Inter dei record, Ivan Lendl, Gianni Bugno e molti altri miti dello sport.
Vasco è stato la colonna sonora della nostra gioventù. Andava bene quando eravamo innamorati, delusi, incazzati (quante volte ho urlato Portatemi Dio); quando volevamo fare i pazzi (Sensazioni forti) o gli strafottenti, perché la vita è questa e bisogna viverla andando “al massimo”; quando tutto sembrava congiurare contro di noi (Lunedì) e cedevamo al fatalismo (Anima fragile). Sotto la “nostra” panchina in piazza, uno di quei giorni in cui un adolescente vorrebbe soltanto sprofondare, scrissi con un colore a spirito nero le strofe finali di Canzone: “e intanto i giorni passano/ ed i ricordi sbiadiscono/ e le abitudini cambiano”. Quella scritta non c’è più, come la panchina e la pavimentazione, sostituite quando la piazza fu ampliata e completamente rifatta. E come quel ragazzo, che ogni tanto riaffiora dal passato e si lascia abbracciare dalla struggente nostalgia di Vivere.
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