La prof Serbelloni piangeva. Ma questo ve lo racconto un’altra volta.
Volevo prima raccontarvi di quello che è successo in questi due giorni appena passati del 2012. Cosa c’entra il 2012? Niente, era solo per dire in che anno siamo.
Comunque, fatto sta che sabato e domenica una figliola se ne è andata a spasso con le amiche per la metropoli, poi lunedì si alza alle cinque per fare la doccia e lavarsi i capelli, poi si alzano tutti gli altri e io alle sei, perché devo essere a scuola alle otto. Alle sette e cinque minuti sono tutta contenta perché sono riuscita a cacciar fuori di casa un figliolo e un marito e ho stampato cinque belle paginette per Bacon, così oggi impara le parole che sapeva già ma che si è dimenticato perché mr. Eggs ha deciso di cominciare a lavorare, con lui, e gli sta facendo le lettere dell’alfabeto, così Bacon non capisce più nulla e non legge più. Inoltre, ho anche stampato la verifica differenziata per Alì e Alò, che almeno la fanno in pace senza chiedermi che cosa vogliono dire pianura, colline e reddito procapite. Insomma, per essere lunedì, è cominciato bene.
Alle sette e un quarto vedo la figliola aggrappata alla scrivania, con la faccia di colore giallo paglierino. Cos’ha? Sta male. Cosa aspetta? Aspetta l’orario del treno. Aggrappata alla scrivania? Ha le vertigini e se si alza cade. Però DEVE andare all’Università.
Mi avete sentito gridare? No? Bravi. Non ho gridato. Ma dopo cinque minuti la figliola era a letto.
Dopo un quarto d’ora io sono pronta per uscire: ho la borsa, la borsina, il quadernone, i libri, il pacco di quaderni corretti e una bottiglietta d’acqua. L’efficienza fatta persona.
La figliola chiama e chiede di essere portata al pronto soccorso.
Dico: aspetta mezz’ora che chiamo il medico.
Dice: no, ho il groppo, ho male di qui e male di là, svengo, le vertigini e compagnia bella.
Dico: vabbe’, ora vediamo, alle otto chiamo…
Dice: il pronto soccorso! Il pronto soccorso!
Ora faccio un’osservazione sociale: voi non avete una sorella, un’amica, un amico, un parente, un vicino di casa che quando parla di pronto soccorso vi dice che è sempre pieno di stranieri perché “quelli lì” ci prendono gusto che si va lì e non si paga? Nessuno vi ha mai detto: ecco, “quelli lì” han preso l’abitudine e a ogni malino corrono al pronto soccorso e lo intasano eccetera?
Ecco. Mi’ figliola è così. Da quando l’ho portata al pronto soccorso la prima volta in età ragionevole (ah ah ah) c’ha preso gusto.
Così: abbandono malinconicamente la borsa, la borsina, il quadernone, i libri, il pacco di quaderni corretti e la bottiglietta d’acqua, chiamo a scuola che non vado e la porto al pronto soccorso. Il pronto soccorso (per inciso: tutti italiani, stavolta, ad aspettare) è abbastanza pronto. Per dire: dopo un’oretta siamo a casa. Diagnosi: chiama il tuo medico e prendi un’aspirina.
Chiamo il medico (come avevo detto di fare un’ora prima), e aspettiamo.
Insomma, la giornata è andata via così, la figliola è stata stesa sul divano a vedere “Nightmare before Christmas” e “La sposa cadavere” e io sono stata al computer a preparare le lezioni di storia per i tonti e il figliolo si è ricordato che deve pagare i bollettini per l’iscrizione che doveva consegnare il 20 febbraio. No, dico: il 20 febbraio. Comunque, lo mando sotto la pioggia a pagare, col mio bancomat: centottanta euro di tassa scolastica; 15 euro e 13 centesimi di tassa governativa; e ritira altre 50 euro che devo restituirle alla nonna che me le ha prestate ieri. Totale: 250 euro. Cioè, no, lo so che manca qualcosa ma,ditemi: voi avete visto il resto? Io nemmeno.
Martedì comincia meglio, perché io comincio dopo. Cioè: mi alzo alle sei uguale, ma vado a scuola un po’ dopo. Comunque, alle sette meno cinque sbatto fuori il marito, mentre il figliolo si alza alle sette meno dieci e fa la doccia e si lava i capelli. No, dico: il treno è alle sette e tre. Divento nervosa, ma poi quello esce anche lui (non mangia, si dimentica i panini del pranzo e la domanda di iscrizione da consegnare il 20 febbraio, ma esce). Io pulisco la cucina, preparo il quadernone con le lezioni differenziate, stampo la mappa sul fascismo… No, quella non la stampo: mi manca la cartuccia. Amen. Son pronta e squilla il telefono.
Chi è? La scuola. L’altra scuola. Il figliolo sta male.
Ora: il figliolo si è alzato quando ho detto, si è lavato i capelli, li ha asciugati in un amen e sono più lunghi di quelli di tutto il resto della famiglia messa assieme, non ha fattocolazione, sono sicura che in treno si è fumacchiato almeno una sigaretta, poi è andato in classe e cosa ha fatto? Ha mangiato una famosa barretta di cioccolato foderato di crema nocciola a cuor leggero. Poi è andato in segreteria a dire di chiamare casa e gli ha vomitato davanti.
Io rispondo che non posso andar a prenderlo e devo andare a scuola. Che stia lì a pensare a quando alzarsi al mattino.
La segretaria dell’altra scuola inorridisce: oh, povero ciccio, mi dice, ce l’ho qui, sta male, mi ha vomitato addosso, non posso vederlo soffrire così (giuro; questo mi ha detto: non posso vederlo soffrire).
Insomma, per farla breve, sveglio un’altra figlia, la faccio vestire, le do 50 euro che avevo in tasca da restituire alla mamma che me li aveva prestati due gironi prima (caso mai dovesse fare benzina) e le dico: vai tu. L’altra figlia dice: se faccio tardi a lavoro lo lascio là. Io dico: fai tu.
E vado a scuola.
A scuola ho ritirato un taglierino col quale Alì voleva affettare la schiena di uno davanti, ho detto ad Alexmessomalex che se voleva lo facevo arrivare a casa senza mai toccare il marciapiedi e ho pianto con la collega di matematica davanti alle prove del colloquio d’esame.
Pazienza, sempre meglio quello che essere nella commissione vattelappesca per le elezioni delle RSU, che si deve trovare (la commissione) a fare, disfare e contare. Lo dico perché lo so; lo dico perché mi hanno messo nella commissione vattelapesca.
Comunque: arrivo a casa: la figliola con le vertigini le combatte sdraiata a guardare Coraline e Chocolat e masticando crackers sul divano; il figliolo che ha vomitato combatte con cotoletta fritta e ketchup, sempre sul divano.
Mi chiudo in camera a stampare le mappe.
Errore. Non ho la cartuccia.
Prendo la macchina e vado al centro commerciale (15 minuti). La figliola non ha fatto la benzina, noto. E si è tenuta i 50 euro, noto. La farò io al ritorno. Al centro commerciale vedo anche un maglione a rombi aperto in saldissimo. Compro, insieme alle cartucce.
Poi vado a pagare.
Vi ricordate che il giorno prima avevo mandato il figliolo a ritirare i soldi per le tasse e non mi aveva dato il resto? Ecco, non mi aveva dato indietro nemmeno il bancomat. Quindi non posso pagare. Quindi la cassiera mi dice, vada pure a prendere i soldi, io sono qui fino a stasera, quindi pianto lì tutto e torno a casa (altri 15 minuti). Vorrei telefonare per vomitare (io, stavolta) qualche commento sullo status mentale e scatologico del figliolo, ma ho perso il cellulare. Mentre penso che ho perso il cell, la macchina esala l’ultimo goccio (di benzina). Siccome è gentile, esala davanti al benzinaio di fiducia e, sull’abbrivio della folle velocità cui stavo guidando, riesco a fermarla davanti al distributore giusto. Scendo, mi inginocchio, mi offro di lavare i vetri del gabbiotto del distributore e, insomma, mi fanno ugualmente il pieno.
“Se poi non viene a pagare, dice il benzinaio, vengo a rapirle un figlio, ah ah ah.”
…
Sì, l’ho pensato anch’io.
Pago, anzi, non pago i 63 euro dovuti (no, dico: sessantatré euro), vado a casa e dico alla figliola presente: telefona a tuo fratello e digli di venire a casa a portarmi il bancomat! Subito!!
Lei telefono e scopriamo che il bancomat era sul letto.
Perché non l’ho visto?
Perché io lavoro in un angolo della camera e il letto è la mia dependance lavorativa. Tra verifiche, guide, stampe, mappe, fogli bianchi e fogli no, e libri in visione per l’adozione, il bancomat non l’avevo visto. Secondo me lo ha messo lì dopo che io ero uscita, comunque.
Torno alla cassa (15 minuti), pago, mi metto in macchina, vado al distributore, ripago (“eh, allora niente figlio”, “eh, no, ma se lo vuole glielo presto ugualmente per un po’”) e comincio a preoccuparmi per l’orario. Se va avanti così, stasera non si cena. Comunque, non c’è problema: l’orologio è fermo. Rotto? Pila scarica? Chi lo sa, lo scopriremo solo vivendo.
Esco dal distributore e mi dirigo à la maison.
Stamattina invece sono usciti tutti: Miss Vertigo, Mister Vomito e Maritino. L’ultima che manca all’appello, e che ha trovato un lavoro mezza giornata mal pagato ma c’è, l’ho appena accompagnata al treno perché non riusciva a camminare. Pare abbia una caviglia a culo. Al ritorno dalla stazione, mi sono trovata incolonnata in mezzo a quelli che vanno a lavoro presto. Presto, intendo, le otto. Ci ho messo dieci minuti a fare due chilometri. Ma insomma, sono qui. Vi ho scritto, un po’ prima e un po’ dopo l’incolonnamento. E tutto per farvi una domanda: mi ha attraversato la strada un gatto. Non era nero, e comunque io ai gatti neri che portano sfortuna non ci credo. Però questo era screziato beige. Quelli neri, no, ma quelli screziati beige, secondo voi, portano sfiga?