Partendo dall'inizio inizio, esiste una forma di meritocrazia, in Italia? Che tipo di meritocrazia è? E, soprattutto, è detentore di merito colui/coloro che decidono in merito al merito da conferire a colui/coloro ai quali è ipotizzato o dimostrato essere detentori di una qualche forma di merito?
La riflessione nasce dall' osservazione di quella che è la mia esperienza concreta. Pensavo a me, ai miei amici, ai conoscenti, alle persone che ho incontrato negli anni univesitari, lavorativi, di vita. Quindi, non faccio riferimento ad un campione attendibile per dimostrare qualcosa, ma è pur sempre una realtà. Per quanto piccola (che poi non credo nemmeno lo sia, così piccola, date le attuali statistiche), ma reale. Così.
Tra queste persone, coloro che hanno voluto e potuto intraprendere una percorso di studi più lungo, per esempio una carriera universitaria, quindi un percorso faticoso (si presuppone), costoso (sicuramente) sono proprio coloro che, una volta cresciuti e intraprese queste peripezie del cervello e incrementi dell' attitudine, in modo più o meno efficace d'accordo, una volta entrati nel mondo del lavoro, non si sono sentiti soddisfatti. Non si sono visti realizzati quelli che erano i progetti iniziali, le aspettative di partenza, e si sono sentiti venire meno quello slancio vitale che gli aveva dato un obiettivo a cui tedere, un bersaglio a cui mirare. Un motivo per giustificare la fatica.
E' venuta a mancare anche la concretezza del provare a fare, del mettersi in gioco e dell'avere uno stipendio a fine mese che permetta ad un ragazzo di rendersi autonomo dalla famiglia, oltre al costruirsi una propria vita indipendente. Queste cose non gli sono permesse, il più delle volte. Gli è permesso solo stare da parte, defilati, non opinare, non sconvolgere, non ribadire, non fare, non chiedere troppo, non osare troppo. Gli è permesso solo fare tutto cio' che gli viene detto, ma niente di più. E, ovviamente, niente di meno, pena la perdita del contratto di collaborazione a 500 euro al mese.
Questa dei trentenni di ora (tra i quali, io) è una generazione di sogni interrotti, di situazioni senza soluzione, di energie, idee, proposte buttate al vento, polveri di idee uccise lanciate nell' Oceano dall'alto di una scogliera, di cose iniziate e mai finite causa mancanza di spazi, di fondi, di luoghi, di strumenti, mancanza di tutto. Anche della carta igienica.
Chi si è laureato negli anni scorsi è passato (e, spesso, sta passando tuttora) attraverso odissee, frustrazioni, mancanza di fiducia e si vede crollata la progettualità. Si è accorto che non esiste più quel termine (che fa molto anni '70) "fare carriera", ma esiste solo una remota possibilità di trovare un lavoro più o meno stabile che permetta di togliersi dalla fascia del precariato.
Nel mio percorso lavorativo sono stata sia dalla parte di quella fa le domande per sapere se una persona puo' essere idonea ad una certa posizione, sia da quella che risponde alle domande per sapere se posso essere idonea ad una certa posizione.
E' difficile riuscire a vendersi bene ad un datore di lavoro che ti chiede come mai compaiono quattro diverse occupazioni negli ultimi tre anni. E spiegare cos'è che vorresti poi davvero fare.
Devi pensarci bene a cosa dire. La posta in gioco è alta quando per lo stesso posto ci sono altre trenta persone con il coltello tra i denti.
Il datore di lavoro deve e vuole indagare la motivazione. Bene. Mi chiedo, che motivazione potrà mai trasmettere una persona che ha studiato, ha pagato le tasse, rette universitarie, ha intrapreso viaggi su treni costantemente sporchi e in ritardo, e si è fatta un culo così per laurearsi, magari anche in corso (magari anche grazie alla fortuna di aver potuto fare dello studio il proprio unico lavoro) e poi si trova senza lavoro, oppure con un lavoro sì, ma gratis, o al massimo retribuito con il buono pasto.
Ecco. Mi chiedo che motivazione puo' trasmettere?
Mi chiedo anche come si puo' fare, a costruirsi un futuro.
Quella domanda che ci hanno sempre fatto, da che mondo e mondo, per indagare la progettualità, l'aspettativa, l'attitudine: "come ti vedi tra dieci anni?"
A vent'anni, da brava ingenua, come è giusto che sia, avevo delle belle idee sul come raggiungere il trentennio. Costruttive, piene di speranza. Vive. Ora, a trent'anni, non riesco a vedermi in nessun modo. E' già tanto se vedo la fine del mese. Ci sono le bollette, l'affitto, le ingiustizie, le frustrazioni, le polemiche, la spesa del sabato, le incomprensioni, l' assicurazione, il da fare quotidiano, l'arrovellamento sulle solite questioni, le difficoltà, la fatica, la voglia di riuscirci, in un qualche modo, a sfangarla, a essere quello che si è. A trovare la soluzione giusta per noi. Nel purgatorio in cui ci incastra la vita.
Vorrei sapere quand'è che ci lasceranno fare quello che vorremmo fare, senza dover sgomitare così forte da lasciarci le penne, quand'è che ci lasceranno imparare quello che potremmo imparare a fare e a farlo anche bene, magari, noi trentenni con la motivazione infilata con decisione lì.
Nel culo.