di Giovanni Palladino
“Disillusione, sfiducia, sconforto, rassegnazione, paura. Ecco le parole del nostro presente”. Inizia così il nuovo libro di Umberto Ambrosoli (“CORAGGIO” – Ed. Il Mulino – pag. 112 – 12 euro), che dopo il grande successo di “QUALUNQUE COSA SUCCEDA” dello stesso autore (premi Capalbio nel 2009 e Terzani nel 2010 e da cui è stata tratta l’omonima miniserie tv della Rai nel 2014), affronta un problema di grande attualità: come opporsi a quelle scoraggianti “parole del nostro presente”, come non rinunciare alla speranza che chi ha sacrificato la sua vita per dare a noi una vita migliore, non lo abbia fatto inutilmente.
E ci parla di persone – da lui per lo più conosciute durante le centinaia di presentazioni del libro che racconta il sacrificio di suo padre Giorgio – che hanno dimostrato e continuano a dimostrare un grande coraggio nell’opporsi alla criminalità organizzata e alla sua grande alleata: la “malapolitica”. È un’alleanza che un altro figlio (Nando dalla Chiesa) di un padre (Carlo Alberto) assassinato da quella criminalità ha coraggiosamente denunciato in tanti libri, fra i quali spicca “LA CONVERGENZA – MAFIA E POLITICA NELLA SECONDA REPUBBLICA” Ed. Melampo (2010). Due figli davvero degni dei loro padri!
Nella Premessa il coraggio viene definito da Umberto Ambrosoli una “virtù civile”:
“Il coraggio è qualcosa che può crescere e maturare nel corso della vita, man mano che la storia personale di ciascuno si arricchisce di esperienze e dati culturali. Il riferimento alla mia vicenda vuole solo dare il segno a quello che sarà l’itinerario del libro, in cui sono i fatti realmente accaduti a rappresentare il punto di partenza della mia riflessione. Incontrare esempi di coraggio può determinare sensibilità e crescita morale. Già da bambino, ho visto nell’esempio di mio padre (e di mia madre che lo ha affiancato e fortificato mano a mano che lui era chiamato ad affrontare scelte difficili) la prova della possibilità concreta di vivere con coraggio, anche quando intorno viene a mancare il sostegno della solidarietà. (…)
Torno all’esempio di mio padre, che ha visto con tale chiarezza il significato della responsabilità affidatagli, da sapersi opporre, con forza e decisione, nella seconda metà degli anni ’70, a un coacervo di malaffare e di poteri criminali, massonici e mafiosi che da quella responsabilità volevano farlo deragliare: attraverso l’isolamento, proposte corruttive, minacce di morte. ‘Oggi non ci sono più persone come quella’. È la reazione comune, ma che non coglie la verità. (…)
Non troverete in queste pagine alcun riferimento epico, nessun richiamo ai gesti valorosi che ci sono stati consegnati dagli albori delle civiltà. Né riflessioni filosofiche o rimandi letterari a chi ha descritto il coraggio magari anche attraverso il suo negativo: la paura. Troverete invece esempi di coraggio civile di uomini e di donne che il più delle volte hanno agito in modo silenzioso e lontano da clamori e riconoscimenti.
L’esempio di chi ha scelto il coraggio può allora servirci per ricercare in noi la medesima forza. Nella consapevolezza, comunque, che il coraggio non è un moto esclusivamente razionale, ma ha anche una dimensione affettiva. Così come non è frutto solo della volontà l’innamorarsi. Coraggio, non a caso, viene dal latino coraticum, aggettivo che deriva da cor, cordis: cuore. Ed è un moto del cuore, come ci ricordano le immagini e i modi di dire: primo fra tutti quello di chi affronta una situazione di pericolo a ‘petto in fuori’, esponendo quindi con fierezza la propria parte vitale, quanto vulnerabile, al rischio.
Un moto del cuore che si insegna proprio con l’esempio. ‘Non posso insegnare ai miei figli a non fare, per paura, ciò che reputano giusto!’: è questo ciò che ha confidato mio padre a un conoscente poco prima che un sicario trasformasse le minacce di morte dimostratesi inefficaci in gesto omicida.
Ecco la forza del cuore, il coraggio”.
Poi il libro scorre veloce nel raccontare numerosi esempi di coraggio nel mondo degli imprenditori, dei liberi professionisti e della politica. Fra tutti, la testimonianza che più mi ha colpito e commosso (nonché sdegnato pensando ai recenti colloqui dei protagonisti di ‘Mafia Capitale’ registrati dalle microspie dei carabinieri) è stata quella di Giacomo Ulivi, un partigiano che nel 1945 – a soli 20 anni – fu condannato a morte. Poco prima di essere giustiziato, scrisse la seguente lettera:
“Cari amici, vi vorrei confessare innanzi tutto che tre volte ho strappato e scritto questa lettera. L’avevo iniziata con uno sguardo in giro, con un sincero rimpianto per le rovine che ci circondano, ma, nel passare all’argomento di cui desidero parlarvi, temevo di apparire ‘falso’, di inzuccherare con un patetico preambolo una pillola propagandistica. E questa parola temo come un’offesa immeritata: non si tratta di propaganda, ma di un esame che vorrei fare con voi. Invece dobbiamo guardare ed esaminare insieme: che cosa? Noi stessi. Per abituarci a vedere in noi la parte di responsabilità che abbiamo dei nostri mali. Per riconoscere quanto da parte nostra si è fatto, per giungere ove siamo giunti. Ecco, per esempio, quanti di noi sperano nella fine di questi casi tremendi, per iniziare una laboriosa e quieta vita? (…) Benissimo, è un sentimento generale, diffuso e soddisfacente. Ma, credo, lavorare non basterà; e nel desiderio invincibile di ‘quiete’, anche se laboriosa, è il segno dell’errore. Perché in questo bisogno di quiete è il tentativo di allontanarsi il più possibile da ogni manifestazione politica.
È il tremendo, il più terribile risultato di un’opera di diseducazione ventennale, di diseducazione o di educazione negativa, che martellando per 20 anni da ogni lato è riuscita a inchiodare in molti di noi dei pregiudizi. Fondamentale quello della ‘sporcizia’ della politica, che mi sembra sia stato ispirato per due vie. Tutti i giorni ci hanno detto che la politica è un lavoro di specialisti. (…) Teoria e pratica concorsero a distoglierci e ad allontanarci da ogni attività politica. (…) Lasciate fare a chi può e deve; voi lavorate e credete, questo dicevano: e quello che facevano lo vediamo ora, che nella vita politica ci siamo stati scaraventati dagli eventi della guerra.
Credetemi, la cosa pubblica è noi stessi, che ogni sua sciagura è sciagura nostra. (…) No, non dite di essere scoraggiati, di non volerne più sapere. Pensate che tutto è successo, perché non ne avete più voluto sapere. Ricordatevi che siete uomini, avete il dovere, se il vostro istinto non vi spinge a esercitare il diritto, di badare ai vostri interessi. Avete mai pensato che nei prossimi mesi si deciderà il destino del nostro Paese, di noi stessi; quale peso decisivo avrà la nostra volontà, se sapremo farla valere; che nostra sarà la responsabilità, se andremo incontro a un periodo negativo? (…) Oggi bisogna combattere contro l’oppressore. Questo è il primo dovere per noi tutti: ma è bene prepararsi a risolvere quei problemi in modo duraturo e che si eviti il risorgere di essi e il ripetersi di tutto quanto si è abbattuto su di noi”.
Giacomo Ulivi, 20 anni, fu “giustiziato” (ironia della parola) all’inizio del 1945 e quindi non vide come il suo generoso invito all’impegno civile fu “calpestato” nei decenni successivi anche per la sciagurata “convergenza” tra mafia e politica documentata ampiamente da Nando dalla Chiesa.
Più avanti, nel suo bel libro, Umberto Ambrosoli descrive il grande coraggio di Maria Carmela Lanzetta – come Sindaco di Monasterace – nel lottare contro la ‘ndrangheta. E commenta:
“Il suo esempio, al pari di quello di molti altri amministratori pubblici che quotidianamente espongono la propria vita alle minacce, genera speranza. Una speranza però come dichiara la Lanzetta in un’intervista – che per non rischiare di diventare una consolazione a futura memoria va intesa secondo le parole di sant’Agostino: la speranza ha due bellissimi figli, lo sdegno e il coraggio. Il primo di fronte a come vanno le cose, il secondo per cambiarle”.
Nel vedere come continuano ad andare le cose in Italia, bisogna purtroppo ammettere che sono due bellissimi figli ancora in fasce e speriamo che nel frattempo l’Italia non si sfasci. Persone come Nando della Chiesa, Umberto Ambrosoli, Maria Carmela Lanzetta e tanti altri ben descritti in CORAGGIO meritano maggiore visibilità e seguito. Lo sdegno è tanto, ma non basta se il mondo politico ed economico non dà segni di effettivo rinnovamento, come auspicava il giovane Giacomo Ulivi alla vigilia della sua fucilazione. Il coraggio per il cambiamento deve venire anche dalla buona cultura di cui è intriso un libro come CORAGGIO.