Germano Sartelli
Non si sa ancora che spazio avrà la verità e la storia di Ustica ma ancora si ricorda di chiedere il diritto alla verità e alla storia su quello che è successo nei cieli della piccola isola ai bordi del mare di Sicilia. La memoria collettiva è un grande atto di impegno ontologicamente civile, perché scegliere dalla verità quello che bisogna continuare a tramandare e quindi produrre nel tempo come storia e quello che bisogna escludere dalla memoria (e quindi escludere dalla storia) è di per se un procedimento niente affatto oggettivo, i suoi meccanismi di visione e revisione sono fluttuanti fino a che l’universalità della visione (concessa o acquisita stabilmente) non ne fissa la necessità del racconto. Lo spazio della storia è fragile e frangibile e presenta possibilità di fratture, laddove essa possa essere non chiaramente raccontata o volontariamente franta in menzogne e mezze verità per orientare il suo ricordo verso il nulla, ossia verso l’oblio, e non fa male ricordare queste elementari narrazioni in un Paese come il nostro dove la storia ne ha fin troppe di crepe e di fessure che si vorrebbero riparare con il silenzio. Ustica ne è una: una frattura, una memoria che ancora deve depositarsi nel fiume della storia. La consegna del silenzio (nda: eufemismo. Dell’omertà del potere sarebbe giusto scrivere, ma va beh….) è stata data da quel giugno 1980 ad oggi per impedire che la storia dei cieli di Ustica si consolidasse in quella maggiore( la storia patria da ratificare a scatola chiusa) e quello che impedisce al silenzio di dominare, di conquistare lo spazio bianco dell’oblio, è la parola fissa, come il disco rotto che suona incessantemente e disturba. La parola fissa dei parenti e delle loro associazioni, e di quella parte di opinione pubblica che non ha paura di chiedere il diritto alla verità. La parola quindi è un atto turbativo, un’eccezionalità necessaria per conquistare spazio e memoria, che porta con se la responsabilità del rumore del libero pensiero, una certa parola chiede quindi il rispetto, e letta o scritta o parlata,la sua è una necessità “sociale”. Un’urgenza di storia.
Above di Mimmo Rotella
Le parole del libro “E’ negli oggetti che ti ricerco” sono plurali e corali. Tre poeti e un’artista visuale compongono le loro parole per “ricordare, con il linguaggio universale dell’arte, quelle vite spezzate in una vergognosa e mai del tutto chiarita azione di guerra aerea in tempo di pace”. Spetta a loro quattro tramandare la storia di quelle vite nel silenzio, e il silenzio è uno spazio enorme, infinito, sconfinato, eppure è fin troppo “naturale” all’uomo. La terra sta zitta, vive in assenza di rumore qui come nello spazio astrale, e sono le razze animali (e il loro più agguerrito esemplare, l’uomo) a portare rumori e suoni, ed è l’orecchio umano\animale che li sente, che ne segna la presenza vitale. Dove cercare la vita quando non fa più rumore? Per le parole del libro la vita continua negli oggetti che appartengono non più alla voce\uomo ma agli occhi\ricordo e dagli oggetti che viva e vivida scorre ancora la vita negata che chi rimane in vita cerca di riprendersi come può o come riesce ancora. Leila Falà, la poeta che apre il libro, ha la chiave della parole come di un’apparizione sottovoce di ombre parlanti,” raccoglie in sottovoce le domande\senza preavviso la tua voce\mi risuona di colpo lenta lenta\- guardavo ferma la fuga delle mattonelle?\attendevo un bus? un pane dal fornaio?-.\proprio allora, proprio lei piano rinasce\la tua voce, sottovoce, nota a nota\non intera, sillabe affettuose,\come cura interminabile\per un attimo mi sana, terapia\buona mollica per il cervello.
Tutto è successo e se ne deve fare “fardello” per continuare a sentire la parola, la voce, nei versi e nelle cose che sono state gli amati e le amate: le allegorie divine o nobili sono bandite. Non c’è tensione, non c’è l’attrito del ritmo o del verso, deve emergere la parola , orecchio e voce e simulacro di chi si è amato ed ora è ombra, il cuore dell’enunciato poetico è quella “nota a nota non intera”, i versi non possono consumarsi perché hanno la partitura metrica della memoria.
I versi che seguono Leila sono simili all’eco: Nicola D’Altri sospende nell’eco i suoi versi per “domandare parola” laddove la ragione non c’è più e il sentimento è un costante dolore. L’eco è la voce spersonalizzata di un uomo nello spazio vuoto, che ripete la domanda senza mai rispondere ad alcuno “ Non è successo niente. Niente è mai successo. Tu sei la domanda.” Il tono del verso diventa meno familiare, lo spazio metrico è maggiormente serrato, la voce è un esodo che entra ed esce dal coro delle domande incarnandosi spesso in prima persona in una sequenza di spazi collettivi. Tutto è ombra e sagoma d’ombra; non è possibile dare equilibrio al dolore della perdita e il verso può solo seguire l’esodo degli amati che sono ormai fuori dalla vita, nel corpo di parole che spesso di riducono fino a chiudersi.
Anche Roberta Sireno usa un movimento frammentato nella divisione dei versi, ma i suoi sono i più lunghi, superano la misura metrica per l’esigenza di lasciare spazio all’indagine del cuore nello spazio bianco del ricordo (siamo\sono\occorre\progetto\penso), e l’alternanza fra lunghi versi iconici e versicoli rende l’ordito fluido e tragico nello stesso spazio. Non si espande nulla, tutto finisce per contrarsi in un mondo passato, che seppure appartenente alla comunità vivente ed umana ne è già fuori, erosa dal dolore, e si lascia ai versi il potere di dire “ciò che non sappiamo dire” (G. Mesa) “soffrendo la scomparsa soffrendo deduco la necessità \del lavoro grezzo lavoro sillabico della\cenere sparsa. L’incanto non è più su questa terra “ progetto la nostra morte\universale oltre i rami del cipresso\che mi sta davanti”.
Lo spazio pittorico e grafico nella plaquette è affidato all’artista Germano Sartelli. Nella prefazione si legge che l’artista dona “un’inquietudine di forme,di linguaggio, di materie e di segni in un fluire incessante da una dimensione all’altra. Da un punto di vista all’altro. Da una sola apparente dispersione a una traiettoria ellittica di avvicinamenti e di distanze”. Sartelli sceglie di implodere gli oggetti, in una sorta di lista delle cose mancanti, spostando e posizionando piccoli frammenti di materiale che una volta era un qualcosa di precisamente definito e consumabile ed ora invece è un fantasma che si ripresenta dall’Ade alla Terra senza nessuna gravità. La gravità dell’aria e del cielo dove è esploso il tutto tanti anni fa, la gravità del lutto che è imploro in tutti quelli che non hanno più sentito la voce di chi è rimasto sepolto in quel mare.