Quando arrivo a destinazione all’ingresso del palazzo c’è un vigilante che mi fa: “Dica?” Quando a Roma un vigilante o un portiere ti dice “dica” significa che ti devi fermare e dare ragione di chi sei, di dove vai, di cosa sei venuto a fare. Il “dica” insomma va preso alla lettera, bisogna dire. E io dico. Dico che devo andare al secondo piano, alla stanza 24, gli mostro la convocazione e il vigilante sembra compiaciuto, annuisce fissandomi con l’aria benevolente, come se il fatto che mi sta concedendo il lasciapassare sia innegabilmente qualcosa di cui dovrò essergli grato per il resto della vita. “Ascensore a sinistra”, mi fa. Vedo una rampa di scale, una bella rampa di un certo pregio architettonico, e mi viene voglia di salire a piedi. Faccio per salire e il vigilante mi insegue. “Dove va?” mi fa. “Gliel’ho appena detto dove vado”, rispondo un po’ scocciato. “Le ho detto che c’è l’ascensore”, ribatte lui. “Grazie, ma preferisco fare le scale a piedi”. La mia spiegazione non lo convince, è lì che pensa quale razza di uomo urbano, al giorno d’oggi, preferisce farsi due rampe di scale a piedi quando invece ha a disposizione un ascensore. È una domanda che gli passa rapida nella testa, come altrettanto rapida è la risposta che mi dà. “Qui nessuno usa le scale”. Mi squadra in un modo come se avesse appena capito che in realtà ho in mente di commettere qualche cosa di molto losco. Ne ho le scatole piene di dare tutte queste spiegazioni, perciò mi volto e senza rispondergli salgo la prima rampa di scale. Il vigilante sale dietro di me. Alla seconda rampa, però, desiste.
Due ore più tardi torno a firmare il verbale. Il vigilante mi fa: “Dica?” “Sono quello di prima, secondo piano, stanza 24”. “Prima quando?” “Prima prima”. “Ascensore in fondo a sinistra”, ripete meccanicamente. Passo davanti alla scala, ma decido di andare in fondo al corridoio. E stavolta prendo l’ascensore.
È pressappoco così che hanno evangelizzato il mondo.