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"E se Atlantide fosse Sepolta sotto i Ghiacci dell'Antartide?"
Creato il 10 agosto 2014 da RisveglioedizioniPurtroppo, nonostante le tante ipotesi avanzate sul misterioso continente perduto, finora non è ancora stato trovato nulla che possa confermarne la passata esistenza. Né sconosciuti resti archeologici sommersi, né continenti sprofondati. Non potrebbe essere allora, si sono chiesti alcuni, che Atlantide non sia finita sotto il mare, e che non possiamo vederla perché è nascosta da qualcos’altro? La pensa così chi ritiene che in realtà l’Antartide fosse un tempo priva di ghiacci e proprio qui si trovasse l’antica civiltà perduta. Tutto iniziò a metà degli anni ’50 con l’osservazione di uno studioso di mappe antiche, il capitano statunitense Arlington H. Mallery, che esaminandone una scoperta alcuni anni prima in Turchia ebbe un’illuminazione. La carta, realizzata nel 1513 dall’ammiraglio turco Piri Ibn Haci Mehmet, meglio noto come Piri Re’is (“l’ammiraglio Piri”), fu disegnata su una pelle di gazzella colorata ad acquarello e perduta per oltre 400 anni. Nel 1929, durante la trasformazione del vecchio Palazzo Imperiale di Istanbul nel museo archeologico Topkapi, la mappa ricomparve e destò sorpresa perché collocava l’America Meridionale nella corretta posizione longitudinale in rapporto all’Africa: un fatto insolito per le mappe del ’500. Ciò che colpì Mallery, però, fu qualcos’altro. Egli si convinse che il lembo di terra raffigurato all’estremo sud della mappa rappresentasse la costa dell’Antartide libera dal ghiaccio. Ma a far diventare esplosiva questa ipotesi furono le successive osservazioni dello studioso Charles H. Hapgood, secondo il quale la precisione della longitudine sulla mappa di Piri Re’is non si poteva spiegare sulla base della scienza cinquecentesca. In particolare esisteva, a suo dire, «una concordanza sorprendente con il profilo sismico della Terra della Regina Maud nell’Antartide» rilevato solo nel 1954 attraverso sondaggi sismici. Ne conseguiva che la mappa si doveva basare su carte più antiche realizzate da viaggiatori di una civiltà sconosciuta, ma progredita, esistita prima dell’Era glaciale. Chi ipotizzò che questa civiltà sconosciuta fosse Atlantide non furono scrittori come i coniugi Rand e Rose Flem-Ath o Graham Hancock, che negli anni ’90 dedicarono a quest’idea libri molto venduti, bensì un ingegnere italiano, Flavio Barbiero, che per primo ne parlò nel 1974 nel libro Una civiltà sotto ghiaccio. L’ipotesi di Flavio Barbiero La teoria di Barbiero prende avvio dall’ipotesi che circa 12.000 anni fa la Terra fosse inclinata diversamente da com’è oggi. Ruotava perpendicolare sul piano dell’eclittica per cui le stagioni coincidevano stabilmente con le fasce climatiche. Alaska e Siberia, così come l’Antartide, erano prive di ghiacci, a differenza di Europa e America nord-occidentale ricoperte dai ghiacci eterni. Nell’Antartide, in particolare, fioriva una civiltà marinara molto evoluta, dove era stata inventata l’agricoltura, la metallurgia e dove fiorivano architettura, tecnologia, arte e scienza di alto livello mentre nel resto del mondo l’uomo era all’Età della pietra. Circa 13 mila anni fa, dopo 2 mila anni di progressi, questa civiltà chiamata Atlantide subì una devastante catastrofe che la annientò quasi interamente. Una cometa o un asteroide, del diametro di una decina di chilometri, colpì la Terra nei pressi della Florida provocando una serie di trasformazioni globali istantanee. L’asse di rotazione della Terra cambiò, i poli cioè si spostarono di colpo di migliaia di chilometri, assumendo la posizione attuale. L’impatto sollevò una nube di polveri tale da innescare piogge torrenziali, con il conseguente abbassamento delle temperature e l’avvio della Grande glaciazione. Il raffreddamento fu così veloce da cogliere di sorpresa i grandi mammut che pascolavano per la Siberia, come dimostrerebbe il fatto che nello stomaco di un esemplare ritrovato c’erano ancora i resti dell’ultimo pasto di erbe tipiche delle zone temperate: si era congelato senza avere avuto il tempo di decomporsi. Ma l’effetto più devastante fu l’onda ciclopica provocata dall’impatto del bolide: un’onda che avrebbe travolto tutte le terre, compresa Atlantide-Antartide. Solo grazie alle sue flotte di imponenti navi, parte della popolazione riuscì a mettersi in salvo e a raggiungere l’America, l’Africa e l’Asia. Sull’isola madre, intanto, prese a nevicare per settimane e forse mesi, finché una coltre gelata, spessa decine di metri, seppellì definitivamente Atlantide. I superstiti, sparpagliati per il mondo, iniziarono a interagire con gli uomini paleolitici, insegnando loro a coltivare i campi e dando una forte accelerazione allo sviluppo della civiltà, originando l’Età neolitica. Indizi a sostegno della teoria La teoria è molto suggestiva, ma ci si chiede: quali sono le prove? Innanzitutto, risponde Barbiero, la scomparsa improvvisa di decine di specie animali che 13 mila anni fa popolavano l’emisfero settentrionale: mastodonti, mammut, rinoceronti lanosi, renne, bisonti antichi, cavalli, cammelli, tigri dai denti a sciabola e così via. In secondo luogo, le importanti somiglianze tra i racconti dei popoli di tutto il mondo, dalla Bibbia alla Mesopotamia, dal mito dell’isola di Mu nel Nord America a quello di Lemuria) dove c’è sempre un diluvio che travolge il mondo e poi qualcuno che viene dal mare e insegna a coltivare la terra. Tali leggende sarebbero la prova che il ricordo dei fenomeni seguiti al cambiamento di asse della Terra è rimasto profondamente radicato nella memoria dei popoli. Altre leggende diffuse potrebbero svelare che il corpo celeste che colpì la Terra fu probabilmente una cometa. Basta pensare a quell’antica superstizione secondo cui le comete sarebbero messaggere o portatrici di gravi calamità. E Atlantide deve corrispondere all’Antartide perché, dice Barbiero, «in nessun altro posto sono stati trovati resti archeologici. Una civiltà del genere, in Europa per esempio, li avrebbe lasciati per forza». Inoltre è l’unica che rispecchi la descrizione che ne dà Platone: un’isola avente una superficie di milioni di km quadrati, circondata da un oceano a sua volta circondato da una fascia continua di continenti, ricca di metalli e favorita (prima del diluvio) da un clima mite. A ulteriore riprova di ciò Barbiero sostiene che «tutti i planisferi anteriori alla scoperta dell’America, sono in realtà carte manipolate dell’Antartide: tutti i popoli antichi concepivano il mondo come una grande isola pressoché circolare, circondata dall’oceano, e questo a sua volta da terre irraggiungibili e misteriose». Osservando per esempio il planisfero tratto dalle Grandes Chroniques de Saint-Denis (1364-1372) Barbiero vi riconosce «il mare di Ross in alto a destra, la baia di Mackenzie a sinistra e il mare di Weddell in basso» oltre alla «fitta rete di canali analoga a quella descritta da Platone». Per non parlare della carta di Piri Re’is che riprodurrebbe il profilo dell’Antartide scoperta dai ghiacci. Secondo Barbiero, tutte queste mappe medievali derivano da carte più antiche, provenienti magari dalla biblioteca di Alessandria prima che fosse distrutta. Barbiero riconosce che tutti questi, al massimo, possono essere considerati indizi, e solo il ritrovamento di tracce archeologiche di Atlantide potrebbe trasformarli in prove. «Basterebbe trovare anche un solo mattone per dimostrarne l’esistenza e rivoluzionare tutta la storia antica e la geologia». Tuttavia, il “mattone” di Atlantide ancora manca. Non solo non sono state mai trovate tracce di vita preistorica sull’Antartide, ma non ce ne sono nemmeno nei luoghi in cui gli atlantidei avrebbero riparato dopo il diluvio. Se davvero questi uomini così evoluti portarono la civiltà in America, Africa e Asia 10.000 anni fa, non ne esistono tracce. Secondo l’archeologia classica, i primi segnali di civiltà superiore sono molto più recenti e risalgono a 3, 4 mila anni prima di Cristo, con qualche rara eccezione. La risposta di Barbiero è che gli atlantidei, essendo marinai, si stabilirono principalmente sulle coste dei vari Paesi: coste che, in seguito allo scioglimento dei ghiacci, finirono sommerse a 130 metri di profondità. Allo stesso modo, i resti delle città atlantidee create quando il Sahara era fertile sarebbero finiti sotto la sabbia del deserto. La diffusione dell’agricoltura Prima dell’avvento della datazione al radiocarbonio 14, ogni questione relativa all’origine ed alle caratteristiche di una qualsiasi cultura antica veniva risolta sulla base dello scenario diffusionista, che nella sua formulazione più essenziale era il seguente: l’agricoltura si è sviluppata per la prima volta nel Medio Oriente, in quella fascia di terra denominata Mezzaluna Fertile; qui sono sorte le prime culture neolitiche e, successivamente, tra il quinto ed il quarto millennio a.C., le prime civiltà superiori, che si sono diffuse poi in tutto il resto del mondo. Campo obbligato di ricerca era allora lo studio comparato delle civiltà, delle loro mitologie, tradizioni, usi e costumi, conoscenze scientifiche e tecnologiche, che forniva ampio supporto alla teoria diffusionista, mostrando una sostanziale identità da un capo all’altro del pianeta. Dopo l’introduzione delle datazioni al radiocarbonio 14, la teoria diffusionista è crollata. Si è scoperto, infatti, che l’agricoltura è nata contemporaneamente in almeno sei aree del mondo senza alcuna relazione apparente fra loro: il Centro e Sud America, la Mezzaluna Fertile, l’Africa Centrale, la Cina orientale ed il Sud Est asiatico. Sono saltate anche la maggior parte delle relazioni temporali fra civiltà diverse, stabilite in base ai presupposti della teoria diffusionista. Nel Mediterraneo, ad esempio, le civiltà megalitiche di Malta e dell’Europa nord-occidentale si sono rivelate più antiche dei loro presunti modelli mesopotamici ed egizi. Per reazione al diffusionismo si è venuto consolidando nel mondo scientifico uno scenario diametralmente opposto, secondo cui le culture antiche sarebbero nate e si sarebbero sviluppate contemporaneamente in più parti del mondo, senza contatti e influenze reciproche. In questo scenario, ovviamente, l’esame comparato delle civiltà è divenuto anatema. Nell’uno e nell’altro scenario si inseriscono sottoscenari, che tentano di superare le difficoltà dei primi con ipotesi più o meno ortodosse. Per esempio nello scenario pre-carbonio 14 ha avuto credito l’ipotesi di Atlantide quale ponte di diffusione della civiltà dall’Eurasia all’America. Nello scenario post-carbonio 14, invece, Atlantide non trova più un suo spazio definito, ma emergono tutta una serie di elementi che proverebbero l’esistenza di una civiltà molto avanzata in epoca preistorica. Naturalmente questi elementi sono negati e “combattuti” dalla scienza ufficiale, perché destabilizzano il quadro generale, senza offrire in cambio scenari alternativi accettabili. Cataclismi geologici ricorrenti In effetti nessun archeologo, o storico antico, è mai stato capace di immaginare uno scenario in grado di risolvere le innumerevoli contraddizioni e semplificazioni cui gli scenari ufficiali danno luogo. Va detto che questa incapacità non è colpa degli storici e degli archeologi, ma piuttosto di branche scientifiche quali la geologia e la climatologia, che a tutt’oggi non sono in grado di dare una risposta soddisfacente ad uno dei problemi fondamentali della storia geologica della Terra e delle specie viventi che vi si sono sviluppate. Questa storia è caratterizzata da lunghissimi periodi di stabilità, inframmezzati da crisi brevissime e violente, durante le quali si hanno da un lato eruzioni vulcaniche imponenti, orogenesi, cambi climatici, inversioni del campo magnetico, variazioni del livello marino ecc.; dall’altro estinzioni di massa, emergenza di nuove specie, cambio radicale degli equilibri ecologici. Nella storia della Terra si contano cinque grandi estinzioni animali, a livello planetario, ed innumerevoli altre minori, o anche totali ma a livello più o meno locale. Le geologia non è ancora in grado di fornire una spiegazione di queste crisi ricorrenti. Negli ultimi anni si sta facendo strada l’ipotesi che siano dovute a catastrofici impatti con comete o asteroidi, perché per alcune di esse, come ad esempio quella del cretaceo superiore, che vide l’estinzione in massa dei dinosauri e preparò l’avvento dei mammiferi, si è potuto appurare la coincidenza con la caduta di un asteroide; il che lascia presupporre che fra i due fenomeni esista una relazione di causa ed effetto. Ma innanzitutto non è affatto chiaro come corpi relativamente minuscoli, quali comete ed asteroidi, possano innescare fenomeni geologici ed estinzioni di massa a livello planetario; in secondo luogo la contemporaneità di un impatto è stata accertata soltanto in un numero limitato di crisi geologiche e ambientali. A tutt’oggi, quindi, nessuno è in grado di dire quale ne sia la vera causa e che cosa accada in realtà nel loro breve svolgimento. Vale a dire che la scienza moderna non è ancora in grado di capire uno dei processi fondamentali dell’evoluzione delle specie viventi. Il traumatico passaggio dal Pleistocene all’Olocene Questo si verifica anche per quel che riguarda la storia dell’uomo. Essa, infatti è caratterizzata da almeno una crisi del tutto analoga, accaduta tra i 12 e 14 mila anni or sono. Fu precisamente in questo periodo che le grandi culture paleolitiche, che avevano prosperato per più di trenta millenni, scomparvero improvvisamente, lasciando il posto ad una umanità nuova. Non sappiamo né perché, né come accadde. L’unica cosa certa è che questa transizione è avvenuta in coincidenza di una delle solite crisi inspiegate, tanto grave da costituire lo spartiacque fra due ere geologiche, il Pleistocene e l’Olocene. L’era pleistocenica giunge al suo termine, segnato da un imponente risveglio dell’attività vulcanica, da terremoti spaventosi, testimoniati dal crollo delle volte nella maggior parte delle caverne del mondo, e da immani alluvioni, che travolgono milioni di animali. In tutto il mondo ci sono testimonianze di ecatombi agghiaccianti. Anche il campo magnetico attraversa un periodo di forti perturbazioni che portano quasi alla sua inversione. Per non parlare poi del regime climatico terrestre, che proprio allora subisce un rapido e radicale cambiamento. Decine di specie scompaiono. Non è possibile capire cosa è accaduto all’uomo durante questa crisi e gli avvenimenti immediatamente seguenti, se non si riesce a scoprire cosa sia realmente successo in quell’occasione. Vediamo allora, in estrema sintesi, qual era la situazione nel mondo prima di quella data fatidica. Tra i 50 e i 12 mila anni or sono una enorme calotta glaciale, spessa oltre tre chilometri, si era irradiata dall’area di Hudson, nel Canada orientale, fino a raggiungere verso sud l’attuale latitudine di New York e verso ovest i ghiacciai che scendevano dalle montagne rocciose, in Alaska. Nello stesso periodo il Nord Europa era coperto da calotte glaciali che al culmine della loro espansione raggiunsero le latitudini di Londra e Berlino. La quantità di acqua congelata sulla terraferma era talmente grande, che il livello del mare era sceso di oltre 100 metri rispetto ad oggi. Le teorie attuali, numerose e spesso in contrasto tra loro, cercano di spiegare l’esistenza di queste masse di ghiaccio, eccentriche rispetto ai poli odierni, con il fatto che il clima fosse allora assai più freddo su tutta la Terra. L’ipotesi, però è contraddetta dall’assenza di calotte glaciali in Siberia, che anzi era popolata fin nelle sue regioni più settentrionali, ben addentro nel mare Artico, da una delle più imponenti comunità zoologiche mai esistite sulla Terra dal tempo dei dinosauri. 40 milioni di mammuth vagavano per le pianure della Siberia e dell’Alaska, ed insieme ad essi c’erano renne, rinoceronti, cavalli, ippopotami, orsi, leoni, leopardi, castori, bradipi giganti, cervi dalle grandi corna, cammelli, tigri dai denti a sciabola e molti altri ancora. Prova certa che il clima siberiano era allora di gran lunga più mite e costante di quanto lo sia attualmente. Per contro, nell’altro emisfero il clima era più freddo in Australia ed in Nuova Zelanda, allora coperta da grandi ghiacciai. Ma ci sono prove che l’Antartide, oggi interamente coperta da una spessa coltre di ghiaccio, ne fosse parzialmente libera, almeno sul versante atlantico. Spostamento dei Poli C’è un’unica ipotesi in grado di spiegare in maniera coerente questa situazione, e cioè che i poli geografici si trovassero allora in posizione diversa da quella attuale e che l’inclinazione dell’asse terrestre fosse inferiore. Tra i 12 e i 14 mila anni fa l’asse terrestre si sarebbe improvvisamente inclinato ed i poli spostati nella posizione attuale. Non si tratta di un’ipotesi fantasiosa. Nessuno mette più in dubbio il fatto che i poli abbiano cambiato sovente la loro posizione sulla superficie terrestre nel corso delle passate ere geologiche. I segni lasciati dalle calotte glaciali in Africa e India, il magnetismo residuo nelle rocce, la distribuzione di antiche barriere coralline e dei depositi di carbone e così via, costituiscono nel loro insieme una prova assoluta che i poli hanno girovagato dall’equatore fino alla posizione attuale. Quelli che non sono affatto chiari, invece, sono i meccanismi e le modalità dello spostamento dei poli. Un’ipotesi avanzata fin dal secolo scorso dal grande astronomo Giovanni Schiapparelli attribuisce questi spostamenti a movimenti superficiali di grandi quantità di materiali, dovuti ai processi di erosione e sedimentazione, che sarebbero in grado di produrre lentissimi spostamenti dei rigonfiamenti equatoriali; pochi centimetri all’anno al massimo, ma che in milioni di anni possono diventare migliaia di chilometri. Schiapparelli, però, ignorava l’esistenza di una enorme quantità di testimonianze geologiche, che sembrano indicare invece che i poli si muovono per “salti” praticamente istantanei, almeno nella scala dei tempi geologica. Fu lo studioso americano Charles Hapgood a metterle in evidenza, ma il meccanismo da lui proposto per spiegare il fenomeno, lo “scorrimento” della crosta terrestre, oltre ad incontrare insormontabili difficoltà di carattere geologico, non è in grado di spiegare proprio la velocità con cui sembra si sia verificato lo spostamento dei poli: a giudicare dal rapidissimo processo di congelamento dei mammuth, conservati intatti con ancora cibo non digerito nello stomaco, si tratterebbe addirittura di giorni. Questa possibilità, tuttavia, è decisamente rifiutata per una ragione del tutto analoga a quella che portò al rifiuto iniziale della teoria di Wegener sulla deriva dei continenti: non si conosce un meccanismo in grado di provocare un fenomeno del genere. L’ipotesi che l’inclinazione dell’asse terrestre rispetto all’eclittica e che la posizione dei poli rispetto alla Terra possano variare rapidamente è stata presa in considerazione fin dal secolo scorso da scienziati del calibro di J.C. Maxwell, ma è stata scartata sulla base di calcoli energetici circa l’effetto stabilizzante dei rigonfiamenti equatoriali terrestri. Solo una “collisione planetaria” sarebbe in grado di produrre un effetto del genere. Fonte: www.ilnavigatorecurioso.it
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