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E se avessero ragione Romiti e Cipolletta?

Da Brunougolini
Perché la Cgil, la Fiom difendono con tanta ostinazione il contratto nazionale? La risposta è facile. Perché è un modo per non disperdere in mille rivoli (come già sempre più spesso avviene attraverso il ricorso ai lavori precari e atipici) l’ esercito del lavoro. Un esercito che non è scomparso ma è disseminato in migliaia di unità produttive mentre buona parte delle grandi fabbriche si è svuotata. Quel contratto assicura (o dovrebbe assicurare) a donne e uomini che vivono in luoghi di lavoro di ogni entità, anche minuscola, anche dove non c’è un sindacato o c’è un sindacato debole, diritti,  tutele  concordati nazionalmente.  Se si annullasse l’Italia del lavoro diventerebbe un’Italia a pelle di leopardo, (altro che gabbie salariali),  come se non bastassero le differenziazioni che già ci sono.  Quelle affermate, ad esempio, con le paghe “ad personam”, per non parlare degli stipendi d’oro assegnati “al merito” di manager gonfi di sconfitte produttive.
Ora quel che si vuole mettere in atto certo non è la cancellazione pura e semplice dello “scudo” nazionale, ma il suo progressivo svuotamento. Vogliono smontare il contratto rendendolo un guscio con molti vuoti, promettendo una rivalsa con la contrattazione aziendale. Quella che finora interessa una minoranza assoluta di imprese. Ed è singolare che negli ultimi 40 anni la partita degli industriali, da Angelo Costa in poi,  sia stata dominata dalla volontà di annullare proprio ogni tipo di contrattazione aziendale. Non ci sono riusciti ed ora  si dichiarano ipocritamente paladini di quella risorsa rivendicando invece il” de profundis” per il contratto nazionale.
E’ una strategia miope e gravissima. E’ in gioco  quella che rappresenta una specie di carta costituzionale dei rapporti di lavoro. Ed è condotta unitariamente da Confindustria e Federmeccanica. Col centrodestra che asseconda, mettendo in conto anche la possibilità di  mettere le mani su un’altra Costituzione, quella che regge l’Italia democratica, nata dopo la fine del fascismo.
La risposta sindacale di Cgil e Fiom la si vedrà il 16 ottobre. Ma non basterà l’orgoglio di categoria.  I metalmeccanici dovranno trovare l’appoggio di altre categorie, quelle che hanno fatto i contratti e non hanno portato casa lo svuotamento del contratto nazionale. La posta in gioco riguarda infatti  l’intero mondo del lavoro, se è vero quello che scrivono emeriti commentatori come Oscar Giannino circa “dieci, cento, mille Pomigliano”. Sarà perciò importante anticipare i tempi attraverso  un’offensiva costruttiva. Con accordi capaci di dimostrare, azienda per azienda, che si possono rendere più stabili gli architravi del contratto nazionale, sconfiggendo sul campo la rincorsa alle deroghe di ogni tipo su orari, turni, salari, condizioni di lavoro.
Un’offensiva non fatta solo di massimalismi, di tribunali e di scioperi di protesta,(non facili in tempi di crisi), ma capace di costringere tutti a rifare i conti, a capire  che così facendo gli imprenditori fedeli alle direttive della Marcegaglia si danno la zappa sui piedi, come ha spiegato Luciano Gallino. Rischiano infatti di fare dei posti di lavoro una giungla inestricabile, un coacervo di conflitti pesanti e dannosi per la ripresa produttiva. Ascoltino, invece, almeno gli appelli di gente che se ne intende come Cesare Romiti (già manager Fiat non certo duttile) e Innocenzo Cipolletta (già direttore della Confindustria). Hanno spiegato, in sostanza, senza essere iscritti alla Fiom, come spaccando il sindacato, non si conquista certo un patto sociale, una nuova rinascita di un Paese già provato da una feroce crisi politica. Aveva ragione Vittorio Foa quando insegnava la “mossa del cavallo” per uscire dal muro contro muro.  Una mossa che riguarda tutti, innanzitutto lorsignori e il governo che li affianca.

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