a cura di Laura Vicenzi
Nicola Fortuna
Nicola Fortuna è il presidente del Comitato Tricolore Arco della Pace di Milano, gruppo formato da cittadini e da alcuni personaggi noti del panorama politico e culturale italiano che nel 1999 donò al Comune di Milano un’enorme bandiera tricolore destinata a sventolare nell’Arco della Pace. Da anni gira il Paese tenendo conferenze sulla storia del vessillo nazionale. Rifiuta la definizione di “nazionalista” e non parla della bandiera italiana come di un feticcio. “Sono un semplice cittadino, un liberale”, afferma Fortuna presentandosi. Nei suoi interventi offre al pubblico gli esiti di una ricerca storica accurata, documentata e appassionata e narra le tappe che hanno portato alla nascita del Tricolore ricordando nel contempo storie di uomini, di gesta civili.
“L’Italia è un’espressione geografica” (frase famosa che è stata attribuita a Metternich), di fatto è il risultato di un crogiolo di popoli più o meno affratellati, nel tempo, dalla vicinanza, dalla terra su cui hanno vissuto. Gli Italiani conoscono poco il loro passato. C’è una responsabilità istituzionale per questo sfilacciamento del Tricolore e della nostra storia?
L’unione italiana è molto recente, altre nazioni europee si erano create secoli prima e avevano così potuto cementare dei vincoli profondi di convivenza civile. Ma la ricchezza d’Italia è proprio nella sua diversità storica, culturale, sociale ed economica; il suo è un assetto molteplice che, se pone un freno in alcune situazioni, da altri punti di vista è un valore da apprezzare perché rappresenta una peculiarità nella storia dei popoli. Le città-stato sorte sul territorio italiano hanno creato nel corso dei secoli un’incredibile ricchezza artistica e culturale, un patrimonio poco conosciuto, ahimè, dagli Italiani. In questo c’è una forte responsabilità anche delle nostre istituzioni che non sono in grado di valorizzarlo come meriterebbe. La storia dell’Italia è molto complessa, e per non essere dimenticata ha bisogno di costanti riscritture.
La storia del Tricolore parte dalla Francia, fa tappa a Milano e a Reggio Emilia, ma il suo racconto ha percorso in lungo e in largo il territorio nazionale. Un racconto che procede anche sul cammino della storia della lingua e della letteratura.
La bandiera è un simbolo di appartenenza per un popolo: esiste un senso di appartenenza tribale che l’uomo ha insito in sé, ne ha parlato anche Charles Darwin nei suoi studi sull’evoluzione della specie umana. Il Tricolore italiano, come quello francese, è nato per rappresentare l’idea della libertà, non certo dell’oppressione di un potere costituito. I segni che fanno intravedere il barlume dell’idea di Italia che covava sotto la cenere affondano nel 1002, quando un feudatario laico dell’imperatore, Arduino da Pombia (noto come Arduino d’Ivrea), venne incoronato a Pavia re “d’Italia”; se ne possono seguire poi le tracce in un cammino che va in parallelo con la diffusione del volgare come lingua letteraria, compare in alcuni versi scritti da Dante nella Divina Commedia (“Ahi serva Italia di dolore ostello… ”, Purgatorio, Canto VI) e anche da Petrarca nel Canzoniere (“Italia mia, benché ’l parlar sia indarno… ”) dove c’è anche un riferimento alla parte di territorio che definisce i contorni sfumati del paese nascente, collocato tra Tevere, Arno e Po. La storia del Tricolore è fortemente intrecciata a quella della Rivoluzione Francese, evento epocale che diede vita a nuove concezioni di cittadinanza e di nazione, e poi all’operato di Napoleone III. La nascita ufficiale del Tricolore italiano è avvenuta a Milano il 6 novembre 1796, occasione in cui venne consegnato da Napoleone Bonaparte a un reparto militare, la Legione Lombarda Cacciatori a Cavallo, che lo utilizzò come bandiera di combattimento schierato a fianco dell’Armée d’Italie (lo stendardo è custodito al Museo del Risorgimento di Milano). Si completa a Reggio Emilia il 7 gennaio 1797, quando il Tricolore divenne il simbolo politico-istituzionale di un nuovo Stato: la Repubblica Cispadana.I delegati della municipalità Cispadana, nella seduta del 7 Gennaio 1797, decretarono: “Che si renda universale lo Stendardo o Bandiera Cispadana di tre colori verde, bianco e rosso”.
L’elenco dei padri che hanno dato vita all’Italia.
Il Conte di Cavour, Vittorio Emanuele II con l’aiuto di Napoleone III, Giuseppe Garibaldi, Giuseppe Mazzini, per finire Giovanni Giolitti, che introdusse il suffragio universale. Tutti uomini che pensavano e agivano “senza confini”. Ricordo solo, visto che riguarda una questione calda del presente, un gesto che fa comprendere la grande figura di statista di Cavour e che portò il piccolo Stato piemontese ad agire in concerto con le grandi potenze europee nella guerra di Crimea (1853-1956). Cavour, alla fine del conflitto, sedeva a parità di rango accanto ai grandi di Francia, Inghilterra, Austria e Russia e ha potuto illustrare le penose condizioni di soggezione e vassallaggio in cui le popolazioni del Lombardo-Veneto e dell’Italia meridionale erano tenute dagli Asburgo e dai Borboni. In quell’occasione pose la questione italiana come qualcosa di cui l’Europa progressista doveva in qualche modo occuparsi.
Uno Stato nello Stato: che ruolo hanno giocato la religione e la chiesa cattolica nel “fare gli Italiani”?
È un rapporto lungo e controverso quello che ci lega col Vaticano, è un legame di “odio e amore”: odio, perché il potere temporale dei Papi, tra le altre cose, fu di impedimento riguardo al processo di formazione dell’unità italiana – solo con le idee di Gioberti e le prime azioni di Pio IX ci fu un timido impulso unitario; amore, perché l’Italia è da sempre un paese cattolico ed è innegabile che la presenza del soglio di Pietro a Roma sia tanto totalizzante. La presenza di due autorità istituzionali al massimo livello coesistenti su un medesimo territorio ha sempre condizionato la nostra storia.
La nascita di una nuova nazione è asservita a precise condizioni (l’esistenza di un popolo unito, un referendum popolare – regolato dal diritto internazionale che ne decreti la nascita – l’autosufficienza economica). Portati dai venti di indipendentismo e di secessione, si sentono fare paralleli alquanto impropri, ultimamente.
La Costituzione del 1948 è pienamente antifascista ed è stata scritta in funzione del timore del possibile ritorno di un regime autoritario che avesse l’intento di spezzare o di controbilanciare il potere istituzionale. Non è “a-fascista“, è nata all’ombra del Ventennio e di due conflitti mondiali e ha un assetto tale che diviene in parte paralizzante per il governo dell’Italia. Se le rivendicazioni localiste e indipendentiste – spesso anche poco consapevoli che questo “strano Paese” sia nato da un insieme di circostanze irripetibili – possono servire a fare da grimaldello, a smuovere il “Moloch” che è diventato per renderlo più efficiente, ben vengano. L’idea di un’Europa come federazione di Stati con lo stesso sistema amministrativo, sanitario, previdenziale a cui si dovrebbe lavorare insieme non nega necessariamente la specificità nazionale in nome di un cosmopolitismo che travalichi il senso di identità e le specificità dei popoli. A nostro merito o demerito, a seconda delle circostanze storiche, ricordiamoci che Mussolini disse: “Governare gli Italiani non è difficile, è inutile”.
L‘Italia è storicamente, in Occidente, il Paese più lontano in assoluto da qualunque forma di rivoluzione necessaria. Anche le rivolte annunciate ora nascono sul terreno della disillusione.
Una rivoluzione è impossibile finché esiste, pur se in forma ridotta rispetto al passato, la presenza condizionante del potere temporale e spirituale del Papato.
Il 17 marzo è la Giornata dell’Unità d’Italia – anniversario che si festeggia in modo solenne ogni 50 anni dal 1861 –, questo 2 giugno si è celebrata la 65^ edizione della Festa della Repubblica: quale messaggio “identitario” possono ancora traghettare queste ricorrenze?
Il 17 marzo ricorre la fondazione del Regno d’Italia ed è divenuta Giornata dell’Unità.
Oggi facciamo parte di una Repubblica dove i nodi son venuti al pettine. È chiaro che non si smantella un paese dall’oggi al domani, soprattutto se inserito come membro fondatore dell’Unione Europea, ma sono in corso spinte centrifughe istituzionali e sta nascendo un nuovo aspro dibattito su come modificare la struttura dello Stato. Ha affermato Cavour: “Il primo bene di un popolo è la sua dignità”. L’Unità d’Italia si è realizzata in modi e tempi assai controversi, sorprendenti e fuori da ogni schema razionale, Cavour stesso non pensava che si sarebbe attuata in quei termini: a Costantino Nigra che da Parigi, al tempo della spedizione dei Mille, gli scriveva “Meglio aspettare. Lasciamo prima arrivare Garibaldi a Napoli. Lasciamo cuocere i maccheroni”, rispose “I maccheroni non sono ancora cotti, ma le arance sono già sulla tavola e non possiamo rifiutarle”.
Lei nelle sue conferenze, a proposito dell’idea di popolo e di nazione, traccia spesso dei paralleli tra Italia e Germania, una tendenza molto d’attualità.
La differenza tra Italia e Germania, anche se le due entità statuali si sono create in momenti storici non troppo dissimili, risiede nella distanza tra la struttura federale tedesca e l’ammasso di leggi centraliste e localiste italiane che preordinano una sovrapposizione di poteri inutile, e poi nel sentimento nazionale tedesco, nel pangermanesimo che in forma mediata, ora più che altro economica, sussiste ancora. Quando racconto la storia del Tricolore, nell’introduzione parlo spesso di un militare tedesco: narro la storia di Hans Langsdorff, un ufficiale della marina tedesca che aveva sempre operato con onore e nel rispetto dell’uomo, anche del nemico. Egli, nel 1939, prima di affondare la nave che comandava e poi suicidarsi, ha lasciato scritto: «Il responsabile dell’affondamento della corazzata tascabile “Admiral Graf Spee” sono soltanto io e se ciò facendo ho gettato l’ombra del biasimo sulla nostra bandiera, sono lieto di pagare con la vita». Langsdorff si suicidò dopo essersi avvolto nel drappo della Marina Imperiale tedesca – non quella del Reich – e si assunse nel messaggio ogni responsabilità per l’accaduto (i fatti sono ricordati anche nel film britannico La battaglia del Rio de la Plata, realizzato nel 1956). La vicenda di quest’uomo fornisce un racconto esemplare dell’attaccamento al vessillo che rappresenta la patria, e il senso di appartenenza alla terra dei padri. Il popolo tedesco è un popolo difficile da amare, ma che si deve ammirare per tanti aspetti. Mi sento Italiano soprattutto all’estero e amo il mio Paese, ma non riesco a concepire un’Europa senza le parole di Goethe, Thomas Mann, Kant,Leibniz, senza la musica di Brahms e di Wagner.
a cura di Laura Vicenzi
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Cover Amedit n° 19 – Giugno 2014, “Barbatrucco” by Iano
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Questo articolo è stato pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 19 – Giugno 2014
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