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E’ singolare che il nodo allo stomaco per la disastrata s...
Creato il 28 febbraio 2014 da LostileliberoIn un sussulto di amor patrio, la magistratura contabile ha così contestato alle “tre sorelle” di non aver computato in quelle allegre valutazioni anche la ricchezza del patrimonio culturale italiano, paventando addirittura una richiesta di risarcimento per danno erariale pari a 234 miliardi di euro. Ce ne sarebbe per ridestare i nazionalismi più assopiti, eppure il carico da novanta estratto dal cilindro dalla Corte dei Conti non ha polarizzato l’interesse di tutti quei parlatori e ventriloqui, ma professionisti, che ad ogni piè sospinto scalpitano per proporre la ricetta più efficace per tirar fuori la tanto amata Italia dalla “palude” della crisi, per usare un’espressione dell’ultimo tra coloro che sono stati chiamati a salvarla. A dire il vero, volendo fare un passo indietro per andare incontro al buon senso, il problema delle agenzie di rating, le stesse che qualche tempo prima del fallimento della Lehman Brothers le attribuivano la tripla A, non è delle agenzie in sé, ma di coloro che gli danno ancora fiducia - e quindi anche un credito -, pur avendo sotto gli occhi i funesti errori e le ambiguità del loro giudicare.
Ma si sa, le stravaganze della “mano invisibile” di smithiana memoria, che tutto regola ed armonizza, non tengono conto delle distrazioni degli uomini, gli stessi che sostanziano però quello stesso mercato a cui vorrebbe rifarsi il “padre nobile” del liberismo. L’idea della Corte dei Conti, nella fattispecie, non è del tutto peregrina. Il concetto di patrimonio, quale parte costitutiva del capitale di una comunità, nasce nella Francia della monarchia costituzionale di Luigi Filippo. Per dirla con Guizot, che di quel governo fu il Ministro dell’Interno e il primo “Ispettore dei monumenti storici”: “la gestione della memoria nazionale diventa una questione di governo”. Anche il “Patrimoine nationale” quindi, venendo incontro alle esigenze della nuova borghesia dominante, può, anzi deve, essere sottoposto alle nuove leggi della contabilità e del mercato, quelle iper-razionali che di quei bourgeois sono insieme il sostrato culturale e il motivo di vittoria sulla sgangherata decadente aristocrazia di spada. Per dirla con Benjamin: “col flâneur l’intelligenza si reca sul mercato”. Nell’occidente dunque, patrimonio culturale compreso, tutto ha un prezzo se qualcuno è disposto, comprando, ad accrodarglielo (detto in altri termini: per “alienare” un bene inalienabile basta un giro d’inchiostro e nulla più). Gli esempi, dai caveau delle banche zeppi di cimeli artistici alle consulenze d’investimento, alimentano questa sensazione: se un disegno di Michelangelo viene battuto all’asta per una cifra superiore ai 30 milioni di euro, anche il patrimonio artistico e culturale diventa una ricchezza de facto (produttività e improduttività – più genericamente il reddito - sono dogmi tutti nuovi che non c’entrano un fico secco con la nozione di ricchezza tout court). In tal caso, se la folla e la pubblica doxa attribuissero un qualche valore all’arte, saremmo certamente i più ricchi del mondo, e quelle stesse agenzie di rating, a cui non importa della verità, della dignità o della bellezza ma del profitto, sarebbero costrette dal mercato a considerarla "ricchezza" per ingrassare i propri profitti e per fare buoni affari. Un problema esclusivamente di prospettiva, una convenzione, un atto di fede a cui si deve cieca con-vinzione: la ricchezza (il trapassato apologo di re Mida e dell’impossibilità di cibarsi dell’oro accumulato è ben lungi dall’essere stato compreso). A differenza di quanto sembrano pensare quelle stesse distratte agenzie di rating, e con loro i novelli cultori della produttività, la ricchezza però non deriva solamente da ciò che può estrinsecarsi in un utilizzo concreto (in tal caso la potenzialità di attrazione turistica, più genericamente l’impiego e lo sfruttamento del prodotto), ma ha anche un valore intrinseco, suo, ammesso che il sempiterno mercato sia disposto a credere fideisticamente nel suo convenuto “valore”. Da questa prospettiva ebbe forse l’occhio più lungimirante dei nostri sciatti imprenditori, ricurvi esclusivamente sulla produttività e sulla competizione, Napoleone, ché comprese in anticipo il valore “economico” e non esclusivamente estetico dei da Vinci e dei Tintoretto, dei Tiziano e dei Veronese. Eppure le agenzie di rating, nei loro infiniti conflitti d’interesse e nelle sviste che segnalano parimenti un certo paraculismo, non hanno tutti i torti. Hanno infatti dalla loro la forza che gli deriva dalla debolezza con cui l’intero popolo italiano tratta il proprio patrimonio. Una scuola che cassa le ore di storia dell’arte e pretende che il settore turistico diventi sempre più strategico e trainante, frammisto al totale disinteresse del popolino per quella memoria che si sta velocemente sfaldando, sferzata sotto i colpi dell’indifferenza e dell’ignoranza più che del tempo e dell’usura, hanno inferto un colpo mortale al nostro stesso patrimonio, e anche alla nostra credibilità.
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