In un sussulto di amor patrio, la magistratura contabile ha così contestato alle “tre sorelle” di non aver computato in quelle allegre valutazioni anche la ricchezza del patrimonio culturale italiano, paventando addirittura una richiesta di risarcimento per danno erariale pari a 234 miliardi di euro. Ce ne sarebbe per ridestare i nazionalismi più assopiti, eppure il carico da novanta estratto dal cilindro dalla Corte dei Conti non ha polarizzato l’interesse di tutti quei parlatori e ventriloqui, ma professionisti, che ad ogni piè sospinto scalpitano per proporre la ricetta più efficace per tirar fuori la tanto amata Italia dalla “palude” della crisi, per usare un’espressione dell’ultimo tra coloro che sono stati chiamati a salvarla. A dire il vero, volendo fare un passo indietro per andare incontro al buon senso, il problema delle agenzie di rating, le stesse che qualche tempo prima del fallimento della Lehman Brothers le attribuivano la tripla A, non è delle agenzie in sé, ma di coloro che gli danno ancora fiducia - e quindi anche un credito -, pur avendo sotto gli occhi i funesti errori e le ambiguità del loro giudicare.
Ma si sa, le stravaganze della “mano invisibile” di smithiana memoria, che tutto regola ed armonizza, non tengono conto delle distrazioni degli uomini, gli stessi che sostanziano però quello stesso mercato a cui vorrebbe rifarsi il “padre nobile” del liberismo. L’idea della Corte dei Conti, nella fattispecie, non è del tutto peregrina. Il concetto di patrimonio, quale parte costitutiva del capitale di una comunità, nasce nella Francia della monarchia costituzionale di Luigi Filippo. Per dirla con Guizot, che di quel governo fu il Ministro dell’Interno e il primo “Ispettore dei monumenti storici”: “la gestione della memoria nazionale diventa una questione di governo”. Anche il “Patrimoine nationale” quindi, venendo incontro alle esigenze della nuova borghesia dominante, può, anzi deve, essere sottoposto alle nuove leggi della contabilità e del mercato, quelle iper-razionali che di quei bourgeois sono insieme il sostrato culturale e il motivo di vittoria sulla sgangherata decadente aristocrazia di spada. Per dirla con Benjamin: “col flâneur l’intelligenza si reca sul mercato”.
Nell’occidente
dunque, patrimonio culturale compreso, tutto ha un prezzo se qualcuno è
disposto, comprando, ad accrodarglielo (detto in altri
termini: per “alienare” un bene inalienabile basta un giro d’inchiostro e nulla
più). Gli esempi, dai caveau delle banche zeppi di cimeli artistici alle
consulenze d’investimento, alimentano questa sensazione: se un disegno di
Michelangelo viene battuto all’asta per una cifra superiore ai 30 milioni di
euro, anche il patrimonio artistico e culturale diventa una ricchezza de facto (produttività e improduttività
– più genericamente il reddito - sono dogmi tutti nuovi che non c’entrano un
fico secco con la nozione di ricchezza tout court). In tal caso, se la folla e
la pubblica doxa attribuissero un
qualche valore all’arte, saremmo certamente i più ricchi del
mondo, e quelle stesse agenzie di rating, a cui non importa della verità, della
dignità o della bellezza ma del profitto, sarebbero costrette dal mercato a
considerarla "ricchezza" per ingrassare i propri profitti e per fare buoni affari. Un
problema esclusivamente di prospettiva, una convenzione, un atto di fede a cui si deve cieca con-vinzione: la ricchezza (il
trapassato apologo di re Mida e dell’impossibilità di cibarsi dell’oro
accumulato è ben lungi dall’essere stato compreso).
A
differenza di quanto sembrano pensare quelle stesse distratte agenzie di rating,
e con loro i novelli cultori della produttività, la ricchezza però non deriva solamente da ciò che può estrinsecarsi in un utilizzo concreto (in tal caso la
potenzialità di attrazione turistica, più genericamente l’impiego e lo
sfruttamento del prodotto), ma ha anche un valore intrinseco, suo, ammesso che il
sempiterno mercato sia disposto a credere fideisticamente nel
suo convenuto “valore”. Da questa prospettiva ebbe forse l’occhio più
lungimirante dei nostri sciatti imprenditori, ricurvi esclusivamente sulla
produttività e sulla competizione, Napoleone, ché comprese in anticipo il valore
“economico” e non esclusivamente estetico dei da Vinci e dei Tintoretto, dei
Tiziano e dei Veronese.
Eppure
le agenzie di rating, nei loro infiniti conflitti d’interesse e nelle sviste che
segnalano parimenti un certo paraculismo, non hanno
tutti i torti. Hanno infatti dalla loro la forza che gli deriva dalla debolezza
con cui l’intero popolo italiano tratta il proprio patrimonio. Una scuola che
cassa le ore di storia dell’arte e pretende che il settore turistico diventi
sempre più strategico e trainante, frammisto al totale disinteresse del popolino
per quella memoria che si sta velocemente sfaldando, sferzata sotto i colpi
dell’indifferenza e dell’ignoranza più che del tempo e dell’usura, hanno inferto
un colpo mortale al nostro stesso patrimonio, e anche alla nostra
credibilità.




