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Ciprì, che in parallelo alla carriera di regista ha portato avanti quella di direttore della fotografia collaborando anche con Bellocchio, fa quello che doveva fare: adopera la commedia per accentuare la drammaturgia di fondo, circuisce creando assurdi teatrini che se spogliati della loro bizzarria presentano un corpo immorale, putrido, vizioso, e, finalmente, tale comicità non presenta la sguaiatezza dei prodotti paratelevisivi italiani del genere, ma, trattandosi dell'autore che per anni ha fatto coppia con Franco Maresco, si imperla di grottesco già all'inizio di quello che poi si rivelerà un vero e proprio storytelling con la brevissima parentesi del vecchio colpito da un fulmine al collo. È un grottesco appagante che nobilita l'intera opera dove, appunto, gli acuti in merito si sprecano e fanno sì che il regista possa sfogare la sua creatività: che sia una canzone a bordo di un relitto arrugginito, o la riproposizione ludica del treno che passa sempre in quel preciso momento fuori dalla casa dello strozzino, oppure la funerea presenza di un uomo nel cortile, l'esacerbazione della realtà non diventa mai forzatura menchemeno maniera, il ritratto palermitano di Ciprì sa essere credibile tanto quanto un'equiparabile visione realistica perché lo scrigno aperto da una chiave così paradossale contiene, ahinoi, le medesime Verità.
In concorso a Venezia '12, la giuria presieduta da Michael Mann ha riconosciuto a Ciprì la bellezza di una fotografia catariflangente con il Premio Osella per il miglior contributo tecnico, mentre al giovane Fabrizio Falco è andato il Premio Mastroianni, ma è chiaro che nel cast, perfettamente in parte, spicca il mattatore Servillo, irresistibile e già indimenticabile simulacro subumano.
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