- Beirut, settembre 2014 -
Abou Maher lo incontrai per caso. A dire il vero, la prima volta fu lui a richiamare la mia attenzione dato che io nemmeno mi ero resa conto della sua presenza. Mi accolse con una certa circospezione ma solo più tardi ne capii il motivo: stavo camminando sul suo territorio senza nemmeno essermi prima presentata. Abou Maher fa il portiere. É da sei anni che con sguardo indagatore osserva chi entra e chi esce da un anonimo palazzo di un quartiere cristiano di Beirut.Abou Maher, ha 46 anni ma ne dimostra dieci in più, ha cinque figli e vive negli stessi dieci metri quadrati in cui lavora. Per essere siriano, tutto sommato, è stato anche abbastanza fortunato.
- Beirut, settembre 2014 -
Ma la sua vita da portiere non gli calza bene, proprio no. Prima di arrivare in Libano, commerciava frutta e verdura, non solo in Siria ma anche in Libano, Turchia e Iraq. Conduceva una vita dignitosa e stava bene. Aveva una casa tutta sua, grande e spaziosa. Aveva più di una macchina e viaggiava. Mi ha parlato spesso dell'Iraq. Quello vero, però, quello di prima che arrivassero gli americani, l'Iraq libero, quello in cui c'era rispetto e nessuno si permetteva di trasgredire le regole, questo mi dice Abou Maher. E poi, quasi da un giorno all'altro, Abou Maher ha infilato bene in un cassetto tutti i ricordi della sua vita passata ed è arrivato a Beirut, costretto a restarci. Si è messo a fare quello che aveva sempre fatto, l'agricoltore, aiutato dai suoi figli e dalla moglie. Poi il salto di qualità e "fu promosso" a portiere di un edificio di nove piani, 400 dollari al mese. Per vivere in una stanza, un semi-interrato nell'atrio del palazzo. In Siria si preferisce dormire a terra, non si usa il materasso, mi ha detto una volta. In ogni caso, se anche volesse, nella sua casa-stanza, non avrebbe modo di far entrare un letto. Giusto un divano, un piccolo ventilatore, il piano cucina e un bagnetto. E la tv, sempre e rigorosamente sintonizzata su Al-Jazeera o su ogni canale che trasmetta aggiornamenti sulla Siria.Insieme ad Abou Maher c'è la moglie, la sua seconda moglie. Ho sempre ignorato il suo nome. A dire il vero, forse ho commesso l'imperdonabile errore di non averglielo mai chiesto. Lei ha 41 anni ed è madre di sette figli lasciati in Siria. Uno è morto durante la guerra e uno, di soli 15 anni, ha passato 5 mesi in carcere, per lo stesso motivo. Ma riesce sempre a trasmettere serenità. Non è scolarizzata, lo si capisce dal modo in cui parla e dai concetti semplici che esprime.
- Beirut, settembre 2014 -
Quando parla, però, mi dà l'impressione di stare sempre un po' sotto pressione: Abou Maher è rispettoso e gentile con le donne ma sua moglie deve rientrare in certi schemi. Allora lei si limita a non trasgredire lo spazio che le è stato concesso e sorride, lo fa sovente. Abou Maher invece no, non sorride molto e nei suoi occhi si intravedono spesso malinconia e preoccupazione. Quella del quotidiano, quella dei soldi, dei cinque figli da far crescere e da accudire, della famiglia lasciata in Siria, dei suoi anziani genitori che non hanno entrate, dello stare in Libano che diventa sempre più costoso e precario, quella di chi sa che resterà sempre ai margini, mai integrato in un Paese che non sa farlo, quella di chi è a Beirut ma potrebbe trovarsi ovunque, tanto il centro sarà sempre lontano e, difficilmente, arriverà a vedere il mare, quella di chi ogni giorno si sveglia sapendo che la sua giornata sarà esattamente come quella precedente, quella di chi si lascia vivere perché non ha la possibilità di scegliere, nemmeno quella di tornarsene a casa...