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Eataly: la bellezza salverà l’Italia

Creato il 05 settembre 2013 da Scienziatodelcibo @scienziatodelci

Sono andato a visitare Eataly di Bari, attivo da poco più di un mese. Sono rimasto molto sorpreso nonostante immaginassi già cosa avrei trovato. La logica commerciale e quella etica si fondono perfettamente in un ambiente accogliente, non anonimo, dove i cibi, i colori e le preparazioni esaltano il vero made in Italy. Per l’occasione riprendo una bella intervista di Massimo Gramellini al patron Oscar Farinetti, agli inizi della sua avventura mondiale con il progetto Eataly. La pubblico perchè sintetizza l’ideologia sottostante questo format di supermercato, ma soprattutto come compito di riflessione per un cambiamento verso il quale ci stiamo lentamente indirizzando.

E così Eataly.
«Nel dopoguerra il 60% della spesa familiare andava in cibo. Ma oggi, su 750 miliardi di consumi, ne spendiamo appena 180 per mangiare: 120 in casa e 60 nei ristoranti. Il 25% dell’insieme. Spendiamo più per telefonare alla moglie e dirgli “cara butta la pasta” che per la pasta. Io avevo davanti a me un 75% da conquistare. Dovevo convincere le persone a spostare i loro soldi da vestiti e orologi al cibo».

Stiamo più attenti a quel che mettiamo sul corpo che a quel che ci mettiamo dentro?
«La conoscenza del cibo è bassissima. Meno del 35% degli italiani sa la differenza fra grano tenero e grano duro, ma più del 60 sa cos’è l’Abs. Perché quelli che vendono auto spiegano cos’è l’Abs, mentre chi vende cibo non spiega nulla. Quando vedi una mela sul bancone, vicino ci trovi solo il prezzo. Ma esistono duecento tipi di mele. Eataly è nata per mettersi a parlare di mele. Così riesce a far sentire “figo” chi le mangia».

Eataly è roba da ricchi, dicono. La Ferrari dei supermercati.
«Semmai la Smart, la 500. Un’utilitaria di lusso. Ho preso la fascia degli appassionati, che da me trovano a prezzi più bassi i cibi di nicchia che prima trovavano solo negli alimentari del centro. E poi mi sono portato a casa una marea di gente comune che ha capito che la differenza fra un piatto di pasta economica e una di qualità è di 10 centesimi appena».

Molti l’hanno copiata.
«Hanno fatto bene. Copiare è intelligente, imitare è stupido. Un asino con le orecchie di un cavallo resta un asino e la cavalla non gliela dà. Ma può copiare l’eleganza del cavallo. Io sono un asino che copia. Per me il cavallo è il bazar di Istanbul. La prima volta ne sono uscito solo dopo tre giorni. Eataly è un misto fra il bazar di Istanbul e il salone del gusto di Carlin Petrini. Del bazar ha i profumi, l’armonia di un luogo dove puoi comprare, mangiare e parlare di cibo con dei competenti».

A New York i clienti vanno solo per mangiare.
«Mica vero. Gli 80 milioni di fatturato sono divisi a metà: 40 di ristoranti e quaranta di supermercato».

Cibi italiani a Manhattan. Alla faccia del chilometro zero.
«Io sono contro il chilometro zero, contro il federalismo e contro la meritocrazia».

Me li ripete uno alla volta?
«Contro il chilometro zero: è giusto che un americano possa avere il parmigiano reggiano, il pesto ligure, il barolo piemontese. Sono contento di vendere grandi cose italiane e di comprare grandi cose straniere: le mie borse di cotone si fanno in Cina. Riduciamo i packaging inquinanti, ma senza la libera circolazione delle merci il mondo si ferma».

Contro il federalismo.
«Fa rima con egoismo. Le esperienze di federalismo, penso al turismo, hanno prodotto disastri. Io sono per l’unità e le biodiversità. Nell’Eataly di Roma abbiamo fatto una installazione di arte contemporanea. Su un grande muro che introduce al ristorante Italia, 20 piatti di 20 regioni, abbiamo incastrato 20 pietre, una per ogni regione. E al centro abbiamo messo la bandiera italiana».

Contro la meritocrazia.
«I più bravi e meritevoli li hanno assunti a Wall Street e guardi cos’hanno combinato… Tutti a riempirsi la bocca di meritocrazia, ma il 95% degli imprenditori lo è per puro culo. Perché lo era il loro padre».

Anche lei.
«Certo. Se non avessi avuto mio padre avrei fatto l’operaio. Bisogna tenere in piedi lo Stato sociale, abolire le lobby, gli egoismi organizzati. Senza altruismo si muore».

Comunista.
«Anche ventimila sindacalisti forse sono un po’ troppi. Per non parlare del nemico, la burocrazia. Va aggredita con una doppia task force. Una strategica, che semplifichi le norme e una tattica, di avvocati, che aiuti le vittime».

Uno dei suoi slogan è: onesto ma furbo.
«Ogni Eataly è dedicato a un valore metafisico. Torino l’armonia, Genova il coraggio, New York il dubbio (il cartello all’ingresso recita: “il cliente NON ha sempre ragione e neanche noi”), Roma la bellezza. L’ho riempita di cartelli di Flaiano: “A Roma ogni mattina s’alza un fregno”».

Romantico.
«Eataly di Roma è una Disneyworld della bellezza italiana. Metà del cibo venduto sarà prodotto lì, a vista. Ci saranno persino le “sfogline” che tirano la pasta a mano, solo che sono tutti maschi, qualcuno anche laureato. Vorrei arrivare a pagarli meglio dei direttori marketing. E poi ci sarà l’arte, con quattro opere autentiche di Modigliani, il sonoro saranno concerti di musica italiana, da Vivaldi a De Andrè. E la satira: cento vignette su politica e cibo, a partire dai comunisti che mangiano i bambini».

La bellezza salverà l’Italia.
«Il nostro Paese fa 30 miliardi di esportazione agroalimentare. Sembra tanto, invece è una miseria. Anziché fare i poliziotti per stanare le imitazioni, andiamo in giro per il mondo a far innamorare i clienti dei nostri prodotti! Lo sa che a Roma ci sono 10 milioni e mezzo di turisti?».

Tanti.
«Pochissimi. Parigi ne fa 26, Londra 33, Manhattan 47 e mezzo, senza Michelangelo. Con dei manager in gamba potremmo triplicare».

Ma la bellezza ci salverà o no?
«Solo quella esportabile. Mi spiego. Il modello della società dei consumi funzionava così: i posti di lavoro garantivano un salario che veniva usato per comprare beni che a loro volta producevano posti di lavoro. Lo schema è saltato perché noi imprenditori, per salvarci dalle troppe tasse, negli ultimi vent’anni ci siamo ingegnati a ridurre i posti. In futuro ce ne saranno ancora meno, anche se riprendessimo a produrre molto».

Quindi la crescita non serve più a dare lavoro?
«Noi ci salviamo solo se quadruplichiamo le esportazioni. L’ho detto l’altro giorno ai giovani imprenditori riuniti a Santa Margherita: non pensate all’Italia, pensate al mondo! Altrimenti il prossimo convegno lo fate a Lourdes… L’Italia è in declino da diciassette secoli, però ha avuto tre inversioni di tendenza: Rinascimento, Risorgimento, Miracolo Economico».

E lei sogna di ingranare la quarta?
«Noi italiani siamo l’uno per cento del pianeta. Una pulce. Ma per una serie di circostanze siamo considerati i più “fighi”. Gli stranieri ci disistimano come senso civico, ma adorano la nostra qualità della vita. Quindi bisogna esportare bellezza: agroalimentare, moda e design, industria manifatturiera di precisione, arte e cultura».

Facile a dirsi.
«Dobbiamo ritrovare la semplicità. Invece abbiamo creato i marchi Dop Igp, Igt, Doc, Docg. Ma un giapponese cosa ne capisce?».

Chi l’ha creati, scusi?
«Il nemico. La burocrazia. Politici incompetenti creano burocrati onnipotenti. La burocrazia sta alla politica come il mistero alla religione».

Come la si cambia?
«Cambiando classe dirigente. Nessuno può aggiustare ciò che ha rotto. Noi cambiamo l’allenatore di una squadra di calcio tre volte l’anno, ma i politici sono sempre gli stessi».


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