Di Gabriella Maddaloni. Anja Wolz, operatrice di Msf (Medici senza frontiere) ha riportato la sua testimonianza in merito al virus Ebola sulla rivista Nejm, e le sue parole non sono affatto rassicuranti. La Wolz afferma infatti che la pericolosità di Ebola è stata gravemente “sottostimata”: l’epidemia ha avuto libero sfogo in Africa in questi mesi, e “la comunità internazionale ci ha messo troppo tempo a reagire. La sua risposta al virus resta pericolosamente inadeguata”.
La Wolz lotta contro l’infezione ogni giorno “faccia a faccia”, e racconta di quanto sia “frustrante e deludente” veder morire quotidianamente tantissime persone, bambini inclusi. Poco o nulla vale la soddisfazione di vedere che alcuni fortunati – molto pochi – si salvano: “sopravvivono solo perché immuni al ceppo che li ha infettati”.
Intanto, l’epidemia si è estesa anche in Congo, e il bilancio attuale parla di 1.500 morti, di cui 392 solo in Sierra Leone. Cifre che in ogni caso, secondo l’operatrice di Msf, sono inferiori a quelle reali: “Ogni giorno vediamo persone morire. Sicuramente muoiono di Ebola, ma non vengono conteggiate dal ministero della Sanità perché la causa non è stata confermata dai test di laboratorio. Il sistema di sorveglianza epidemiologica è disfunzionale. Abbiamo bisogno di definire la catena dei contagi per poterli fermare, ma ci mancano dati chiave. Nessuna singola organizzazione, da sola, ha la capacità di gestire tutto quanto è necessario per fermare l’epidemia. Ci servono persone che ci ‘mettano le mani’ e che lavorino sul campo. Abbiamo bisogno di stare un passo avanti all’epidemia, invece siamo cinque passi indietro a inseguirla”.
L’infermiera narra anche di bambini che lei stessa ha visto morire a causa della malattia, come un ragazzino di 6 anni e la sua sorellina di 3, che prima di spirare erano rimasti orfani dei genitori. Un altro bimbo le ha raccontato d’aver perso il conto di quanti familiari l’Ebola gli avesse tolto: “Sapeva unicamente d’essere rimasto solo al mondo”.
Lo strazio emotivo è anche aggravato da inconvenienti di tipo pratico: il centro di Kailahun, tra Liberia e Guinea, ha 80 letti, di cui 64 occupati; arrivano ogni giorno nuovi pazienti e per proteggersi dal virus mentre si sta accanto ai malati si devono indossare pesanti equipaggiamenti protettivi. “Per evitare il contagio nessun centimetro quadrato di pelle deve restare scoperto, perché anche un solo errore può essere fatale. Portiamo due paia di guanti, due maschere e un pesante grembiule che copre tutta la parte superiore della tuta che avvolge il corpo per intero. Una ‘gabbia’ che nessuno dovrebbe indossare per più di 40 minuti. Ma nei reparti di isolamento il tempo sembra non bastare mai. Nell’area di massima sicurezza c’è anche una tenda per i malati più gravi ed è lì che cerco di passare la maggior parte delle mie ore. Anche solo per tenere la mano ai pazienti, per dar loro degli antidolorifici, per sedere sui letti e non farli sentire soli”.
Sono parole che non lasciano indifferenti a livello psicologico ed emotivo, e aiutano a capire che si tratta di qualcosa che ci riguarda da molto più vicino di quanto pensiamo.