Ecco come il Pd è arrivato al 40%

Creato il 28 maggio 2014 da Nicola933

Di Erica Vaccaro. Un anno e mezzo fa – come ci ha ricordato Enrico Mentana – Matteo Renzi, uscito sconfitto dallo scontro con Bersani alle primarie si era lasciato andare ad una dichiarazione: “il Pd cui noi puntiamo è un partito che può puntare al 40%, il loro è un Partito Democratico che ben che vada può arrivare al 25%”. La frase passò quasi inosservata come una banale forma di alterigia da parte di chi puntava a prendere le redini del partito. Certo a rileggerla oggi chi all’epoca parlò di fantapolitica si sarà ricreduto. Ma non era stata una profezia quella di Renzi quanto piuttosto un obiettivo lungimirante di cui Renzi aveva ben chiaro i passaggi intermedi. Il Pd di Bersani alle politiche del 2013 prese il 25%, una “non vittoria” – come ammise lo stesso segretario – perché non c’erano i numeri per governare e da li infatti seguirono una serie di fallimenti che portarono al Governo Letta prima e alla vittoria di Renzi alle primarie poi. Seguì un cambio di guardia nel partito con un voto interno in direzione che portò Renzi a rimpiazzare Letta alla guida del Governo. È questo il momento in cui comincia la scalata di Renzi verso il 40%. Il Pd era un partito immobile, incapace di governare e di stringere alleanze con altri partiti.

Dall’altro lato il M5s anch’esso incapace di fare accordi con qualsivoglia partito. Una situazione di stallo in cui i due principali partiti erano incapaci di imporsi e di governare allo stesso tempo.

In questo conteso si inserisce l’intuizione di Matteo Renzi: bisognava dimostrare la differenza tra un movimento che dice di voler cambiare l’Italia ma che non fa e un partito che è disposto a tutto pur di fare. Il governo del fare di Matteo Renzi ha messo in moto un percorso di riforma e ha rischiato di perdere la faccia stringendo accordi con l’eterno nemico Berlusconi.

Sono seguiti una serie di leggi e voti di fiducia che fino ad ora hanno portato ad un nulla di fatto. Non c’è ancora una riforma della legge elettorale e neanche una riforma del Senato che ne rappresenta il presupposto. C’è però un progetto e una tendenza da molti definita democristiana, di scendere a compromessi più con gli altri partiti che con il proprio. Progetto e compromesso due elementi che appartengono al Pd e non al M5S e che hanno portato ad uno spostamento di un bacino di elettori dal M5s al Pd. I dati sono chiari, il Pd ha guadagnato il 40% e 2,5 milioni circa di voti rispetto alle elezioni politiche del 2013, il M5s si è fermato al 21% e ha perduto circa tre milioni di voti.

Anche le elezioni amministrative hanno portato il Pd a conquistare 9 capoluoghi al primo turno e ad essere in vantaggio nei 14 capoluoghi al ballottaggio, laddove invece il M5S è totalmente incapace di imporsi. Il Movimento di Beppe Grillo paga l’immobilismo degli ultimi mesi e la totale mancanza di un progetto concreto al livello europeo: non c’era un candidato designato per la presidenza della commissione e non c’era un progetto di alleanza con alcun partito europeo.


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