“In cuor di donna quanto dura amore? – (Ore)
Ed ella non mi amò quant’io l’amai? – (Mai)
Or chi sei tu che sì ti lagni meco? – (Eco).”
(Luigi Pirandello, Il fu Mattia Pascal)
C’era una volta, in un tempo lontano lontano, una ninfa di nome Eco, che come tutte le donne non la piantava mai di ciarlare. Un giorno Giunone, furiosa per essere stata distratta dalle sue chiacchiere mentre suo marito, Giove, andava a donne, la punì con una terribile maledizione: non avrebbe più potuto parlare, ma solo ripetere ciò che gli altri dicevano. La ninfa non se la prese a male, si fece assumere come conduttrice del TG3 e per alcuni anni visse lietamente, ripetendo a scilinguagnolo le veline improbabili della Reuters.
Ma la felicità durò poco.
Un giorno conobbe un avvenente giovanotto di nome Narciso, che curava su “Repubblica” una pvngente rvbrica di frizzi & lazzi catatonici, e se ne innamorò perdutamente. Ma Narciso non ricambiava il suo amore. Si era infatti invaghito delle palluccelle cotonate che stazionavano nel proprio ombelico e nella rubrica da lui curata ne descriveva estasiato la svblime consistenza e la gaudiosa desiderabilità, standosene stravaccato su un’amaca da cui non si muoveva mai, nemmeno per rispondere ai più accorati richiami della fisiologia. Un giorno, con sommo disdoro dei politi utenti che ne seguivano le gesta, i due piccioncini svanirono nel nulla. Si ipotizzò che il loro tragico amore fosse giunto al disiato epilogo shakespeariano, li si sostituì con le previsioni del tempo e nessuno ci pensò più.
Ma non era così.
I due sventurati amanti erano stati in realtà presi in custodia da un gruppo operativo della CIA, che li rinchiuse in una base segreta di Langley e ne fece i primi esemplari di un progetto eugenetico top secret, finanziato da cospicue sovvenzioni militari. Ai bovini che seguivano le loro rubriche, venne detto che Narciso si era tramutato per magia in uno splendido fiore e che Eco si era dissolta nell’aria, divenendo pura voce; e i bovini si bevvero tutto, esattamente come oggi si bevono le fosse comuni di Gheddafi, le elezioni democratiche e i viaggi sulla luna.
I discendenti di Eco e Narciso, allevati intensivamente in un capannone della CIA attrezzato di colossali batterie da ingrasso Borgovit, fondarono una nuova razza d’individui geneticamente selezionati che univano nei propri cromosomi la fatuità autocompiacente del padre e – soprattutto – la straordinaria dote della madre di ciarlare per ore senza mai dire niente, limitandosi a ripetere il suono delle parole altrui. L’ultimo esemplare di questa raffinata specie di logorroici cicisbei è il noto scrittore ed intellettuale italiano Umberto Eco, che alla nascita prese il nome della madre perché appena uscito dall’incubatrice chiacchierava già talmente tanto che al padre venne l’emicrania e si rifiutò di riconoscerlo. Umberto Eco è non soltanto un grande autore di saggi e romanzi, nonché uno degli esponenti della cultura italiana più conosciuti all’estero, ma soprattutto un sorprendente fenomeno di riflessione acustica. Negli anni, ha dimostrato di possedere non solo una cultura enciclopedica, in grado di spaziare per ogni possibile branca dell’umano scibile, non solo una straordinaria acutezza intellettuale, prolificità saggistica e autorevolezza di pensiero, ma anche un’enorme panciera del dottor Gibaud, che compatta e comprime le cavità ventrali, sì da riecheggiare i segnali sonori esterni e le perturbazioni a carattere oscillatorio con una qualità della ripetizione acustica pressoché perfetta.
Queste mirabili proprietà rintronanti hanno occasionalmente causato al dotto accademico alcuni spiacevoli fastidi coniugali, dando luogo a conversazioni con la moglie del tipo:
- Umberto, perché non vieni mai a darmi una mano a portare su la spesa?
- …Pesa … pesa … pesa …
- Sì, pesa, e quindi il lavoro mi tocca farlo tutto io, non è così?
- …Sì …sì …sì …
Umberto Eco deve la vita all’insostituibilità delle proprie prerogative nelle attività domestiche, dove si produce nella rigovernatura a ultrasuoni delle stoviglie sporche, ottenendone un perfetto lavaggio con potente cavitazione sonica e vibrazione meccanico molecolare. Viene anche utilizzato negli impianti di sverniciatura e per la pulitura in multifrequenza di particolari meccanici e componenti lavorati nell’industria aerospaziale.
La disinvolta ars repetendi del soggetto è primariamente rimarchevole nella sua produzione letteraria. I romanzi di Eco si collocano nel filone del postmoderno, il cui carattere precipuo è quello di dar vita ad un pastiche letterario, che non inventa mai nulla di nuovo, ma miscela indistintamente generi, stili e linguaggi preesistenti, senza però lasciarne scaturire un’amalgama fruibile e godibile (come poteva essere quello dantesco) che costituisca un nuovo anello di partenza della catena testuale, ma ricavandone invece un minestrone mal rimescolato in cui tutti i pezzi d’erbaglia ed ortaglia restano a galleggiare sulla broda. Così ne “Il nome della rosa” il romanzo storico medievale si accoppia (ma non riesce a fondersi) con la “detective story”, in “Baudolino” il “delitto della camera chiusa” si unisce al romanzo di guerra, al romanzo di viaggio, all’epica cavalleresca, al fantasy, ecc., in “La misteriosa fiamma della regina Loana” le citazioni iconografiche del passato (dai fumetti alle copertine dei dischi, dai calendarietti di barbiere ai manifesti pubblicitari vintage) si accavallano l’una all’altra senza mai trovare una sintesi, e così via. I romanzi di Eco non sono elaborati manicaretti, ma conglomerati caotici di ingredienti del passato, che – come scrive Remo Ceserani – “fiaccano l’appetito e la capacità di digerire”. Sono un tripudio di citazioni, una salva di rievocazioni erudite del già visto, una pirotecnìa di effetti visivi, anagrammi, enigmi, svolazzi filosofici e figure iconiche neobarocche che non trovano mai una composizione, ma che appaiono all’improvviso brillanti e colorati sul buio della pagina, lasciando pregustare al lettore grandi meraviglie. Ma poi immantinente si spengono, come un fuoco d’artificio effimero. Come un’eco lontana di complessi modelli ed epiche dimensioni letterarie del passato, che sono morti, lasciando dietro di sé soltanto il flebile simulacro della propria voce, pronti a essere rivenduti al dettaglio sui muriccioli come la biblioteca di Don Ferrante.