Economia capitalista: contro il popolo

Creato il 19 gennaio 2011 da Coriintempesta

Tanto nelle politiche monetarie quanto in quelle industriali, la parola d’ordine è la noncuranza del bene comune
Brutta cosa le illusioni, per quanto pie. C’è chi si illude, ad esempio, su eventuali conseguenze “rivoluzionarie” che si verificherebbero in seguito alla riaffermazione della verità storica da parte della scuola del revisionismo storiografico che, svelando al mondo occidentale la infondatezza scientifica del dogma holocaustico e la natura viscida della danarosa “industria” che su questo ha tratto incalcolabili benefici politici ed economici, farebbe rivoltare il mondo intero contro il sionismo e riabiliterebbe all’istante i regimi politici che di tale mendace teorema sono state le vittime.
Anche le illusioni del cavaliere Henry Ford sembrano appartenere oramai alla protostoria. E’ ormai stata letta e riletta la sua incisiva affermazione secondo cui sarebbe stato un bene “che il popolo non comprenda il funzionamento del nostro sistema bancario e monetario, perché se accadesse scoppierebbe una rivoluzione prima di domani mattina”. Ford morì negli anni Quaranta, e la sua affermazione, contestualizzata, aveva un senso. Invece, di fronte alle decadenti figure degli uomini occidentali moderni, purtroppo rivoluzioni non possono essere previste né prima di domani mattina né prima delle calende greche. Hanno giocato un ruolo di primo piano in questo senso il torpore imposto alle coscienze, la blindatura del mondo scientifico e accademico che solo se funzionale alla dottrina economica capitalista può assurgere agli onori della grande informazione, dell’università, della delineazione delle politiche degli Stati; chi ha denunziato il reale funzionamento del sistema monetario internazionale e le dinamiche perverse del signoraggio è invece stato messo ai margini, deriso, umiliato, privato di ogni riconoscimento e ha visto i suoi studi relegati al calderone “complottista” in cui viene gettata ad ardere ogni teorizzazione che si azzardi a sfidare la dittatura del pensiero unico e a bestemmiare il Verbo unificato della nuova trinità: sionismo, capitalismo, modernità.
A ulteriore riprova di come sia assodato, quindi, che almeno nell’immediato sono e restano (ribadiamo: pie) illusioni le rivoluzioni nel nome di Auriti o di Faurisson, vediamo infatti che l’universo accademico a guardia del sistema finanziario internazionale, certo del fatto che “prima di domattina” nulla dovrebbe accadere, e forte delle cospicue dosi di sedativo iniettate nei popoli d’Europa nel corso degli ultimi decenni, non si cura neanche più di tanto di celare alla massa il lato oscuro delle dinamiche economiche capitaliste e i loro dichiarati fini di autoreferenzialità e di sfruttamento. Si considerino le politiche industriali. E’ stato largamente dibattuto, nei giorni passati, il caso-Fiat. La sostanza ideologica (si passi la terminologia desueta) della questione è stata quella per cui i lavoratori “non possono” opporsi alle nuove dinamiche del mercato e dell’economia. Ci dicono: è il capitalismo, baby, ormai dovreste averlo capito, il migliore dei mondi possibili; e perché si conservi occorre sacrificare anche quel minimo di tutela sociale che era rimasta, fastidioso orpello novecentesco. Che la regolamentazione del lavoro (sotto l’aspetto giuspubblicistico o giusprivatistico che sia) possa ancora tener conto dei diritti dell’uomo-lavoratore, è qualcosa fuori dal mondo e fuori discussione. Si può discutere, concertare, limare qua e là, concedere o meno un qualche contentino, ma la sostanza è che il sistema deve essere preservato, e solo una volta messo in sicurezza si può discutere sui “come” e sui “quando”. Una delle critiche più comuni rivolte dal padronato ai lavoratori è stata infatti quella della mancanza di comprensione dell’attualità del sistema produttivo, dell’ostinarsi a voler analizzare con categorie politiche del passato il nuovo corso economico, del non voler compiere i sacrifici (sì, abbiamo dovuto sentire anche questa) necessari al superamento della “crisi”, tralasciando il miserevole dettaglio che è proprio il sistema finanziario internazionale e l’economia turbocapitalista ad averla generata. Nell’analisi delle politiche monetarie e della finanza internazionale, lorsignori non si comportano diversamente: esiste un Verbo, la “stabilità dei mercati”, e tutto il resto deve venire di conseguenza. Ce ne concede un esempio Guido Tabellini, economistico italiano di chiara fama, fresco di studi “americani” e rettore dell’università Bocconi di Milano. In un articolo di questa domenica su Il Sole 24 Ore, che il quotidiano confindustriale ha inserito in una rubrica di prima pagina che ha ben reputato di denominare (con buona pace di Platone, di Cartesio e di Hegel) “Idee”, il “nostro” ci ricorda di come sia necessario pensare innanzitutto alla stabilità finanziaria, e solo in secondo luogo a quella dei prezzi, anteponendo quindi a un’economia politica pura, quella dell’analisi della gestione economica dei bisogni e delle necessità degli uomini all’interno delle strutture sociali in cui sono inseriti, un’economia (a)politica c.d. “sociale” in salsa finanziaria e capitalista, che vede tra le sue primarie peculiarità la conservazione di un sistema chiuso di predazione. Sostiene il Tabellini che l’obiettivo della stabilità finanziaria deve essere perseguito con ogni mezzo, non solo quelli tradizionali della politica monetaria e del tasso di interesse, ma anche favorendo le politiche inflazionistiche “non convenzionali” che andrebbero a favorire il sistema finanziario ma che andrebbero a incidere notevolmente (in termini di incremento) sui prezzi. Dice: “ma è questo il momento giusto per preoccuparsi della stabilità dei prezzi, visto il rischio di una doppia crisi sul debito sovrano e sul sistema bancario che incombe su una parte rilevante dell’Eurozona? (…) non sarebbe meglio che la politica monetaria si preoccupasse della stabilità finanziaria, facilitando l’uscita dalla crisi con tutti gli strumenti a sua disposizione, come stanno facendo la Federal Reserve americana e la Banca d’Inghilterra?”. E il bene comune? La necessità che lo Stato diriga il sistema economico e monetario nel senso di tutela del benessere e delle possibilità di accesso ai beni da parte del popolo? E le voci, sempre più ricorrenti, che parlano di un rischio neanche tanto remoto di crisi alimentare anche qui nella grassa Europa? No, non sono la priorità: occorre salvare le banche. Poi, vedrete, si salverà anche il popolo. Credeteci. “Il Re è nudo”, verrebbe insomma da dire. Neanche più il pudore di nascondere le loro reali, torbide intenzioni. Ma i tempi di Ford sono lontani e forse nessuno, dopo aver letto Il Sole 24 Ore, si metterà a sostenere la necessità della “rivoluzione”. O meglio: quasi nessuno. Forse resteranno solo quelli che i vari Marchionne e i vari editorialisti confindustriali dicono essere “fermi all’Ottocento”, perché vogliono difendere i diritti del lavoro e del bene comune. Ma se questo è il loro progresso, ce lo teniamo ben stretto il nostro Ottocento: quello di Sorel, quello di Proudhon, che lanciarono nella modernità la parola che ancora è messaggera per noi di speranze e per loro di paure: socialismo.

di:Fabrizio Fiorini su Rinascita.eu
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