Magazine Società
Un po’ per senso civico e forse un po’ anche per vergogna – un giornalista dovrebbe essere informato su tutto -, seguo con il fiato sospeso l’andamento comatoso della nostra economia. Mi preparo, nottetempo, frasi di commiato appropriate per l’imminente funerale dell’euro; non si sa mai, se qualcuno del bar mi venisse a chiedere un commento sulla borsa di Hong kong. E allora sondo l’umore mercati, queste misteriose entità che nel mio immaginario, come l’ordine dl Templari, sono investite di una sacra missione sconosciuta ai non adepti.
Non ci capisco un tubo, nè la mia economia privata, molto mediocremente benestante, mi consente di giovarmi o di dolermi di ciò che accade. Vedo che tutti si preoccupano e mi adeguo. Scimmiotto la faccia triste di Giorgino, mi trincero nel silenzio stampa come il premier, dò pacche sulle spalle al mio barista.
Ma più cresce l’attesa spasmodica – e per la sinistra piuttosto inedita – per le oscillazioni degli indicatori economici e più temo la schiacciamento ossessivo del dibattito politico intorno ai soldi. Anche i discorsi da bar sono pesantemente influenzati dall’indice Mibtel (“chissà sino a quando potremo permetterci l’oliva nel Martini”, “il Milan Messi ora se lo può sognare”, “ora arriveranno gli uomini moldavi a portarci via le donne”).
Si chiamava un tempo “economicismo” questo ridurre ogni discorso sul conflitto sociale alla sua rappresentazione economica: ed era considerato un brutto vizio. Una contaminazione della politica, un degrado dell’amministrare.
Mi chiedo, oggi, quale spazio resta alla politica al di fuori di questo oramai permanente e antico e pernicioso discorso sulla crisi economica, della quale sento parlare da quando sono nato, attendendone invano o la soluzione o il precipitare, per vedere di nascosto l’effetto che fa.
E le idee? E la cultura? E i destini degli uomini, dei paesaggi, dello spirito pubblico? Sono tutte cose che costano quattrini, si sa. Ma almeno discuterne è gratis, e non dovrebbe turbare i mercati.
Vogliamo approfittarne?.
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