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Ed è stato lo sciabordio delle onde

Creato il 31 agosto 2013 da Annerrima
La Yugo. Fonte: http://www.flickriver.com/photos/sandertoonen/7965791332/

La Zastava Yugo. Fonte: flickr.com

Ed è stato lo sciabordio delle onde l’unico, vero leitmotiv di queste vacanze, assieme a tre fortissimi simboli dell’ex Jugoslavia. Uno di cui ho sentito solo parlare: la Zastava Yugo, appunto, automobile prodotta fino al 2000, una specie di Fiat di regime. Il pelinkovac, amaro d’erbe dai poteri miracolosi, che combatte il raffreddore in maniera quasi chirurgica, un bicchiere nove kune. E infine i cevapcici, salsicce a buon mercato che si trovano in supermercati, ristoranti, negozietti, da gustare con ajvar, salsa ai peperoni piccante e dal colore un po’ chimico.

Per me niente di nuovo, tutto già sperimentato, perlomeno grazie al mio passato triestino, durante il quale ho fatto tappa a Lubiana, Zagabria e Istria.

La sensazione di “magna Grecia”, però, non l’avevo mai provata. E Gabriele, che ha origini di Serracapriola, in Puglia, ritrovava paesaggi e acque molto simili a quelli del mare dove andava da bambino, salvo che lì c’era sabbia e in Croazia soltanto scogli.

Adriano, un amico di vecchia data, friulano il cui nonno era di Lastovo, ci ha accolto in quell’isola con il suo fare ruvido, un mix tra Friuli e Dalmazia cui ero abituata e che ora sto dimenticando, che ad alcuni risulta ostico ma che per me è la vera essenza di chi vive a nordest. Anche se lui direbbe che non è vero, io trovo, soprattutto da quando non vivo più in Friuli, molte somiglianze tra friulani, triestini e dalmati, pur nelle loro diversità. Forse questo è il significato dell’andarsene via, questo ritrovare e ritrovarsi in popolazioni vicine e lontane qualcosa che si è lasciato e che, quando si viveva “là”, non si sapeva di avere.

Le letture in questa vacanza, quelle sì, sono state davvero indovinate. Mi hanno fatto desiderare, alternativamente, di essere nei luoghi in cui esse erano ambientate, o ritrovarne alcuni in cui io ero per davvero. Quasi casualmente, infatti, ho deciso di leggere Venuto al mondo di Margaret Mazzantini. Romanzo al quale rimprovero due cose: la scelta della copertina nell’edizione che mi è toccato di acquistare, e un punto di vista troppo, troppo, troppo femminil-borghese-radical chic. Per quanto riguarda il primo punto, il mio rimprovero è dovuto al fatto che la copertina originaria era davvero bella, adeguata, d’impatto, ed è un vero peccato che sia stata sostituita con la banale immagine della locandina del film.

Per quel che riguarda il secondo punto, credo che questo sia un male che attraversa non solo certa letteratura femminile italiana, ma anche molto cinema nostrano. Mazzantini e Castellitto, in questo senso, rappresentano la coppia-macchina-da-soldi-per-signore-represse-annoiate-e-borghesi (e scusate se mi sono dilungata). I loro librifilm, volumi che nascono già pensati per essere presentati in seguito in veste cinematografica, sono rappresentativi di una certa fetta di sinistra italiana radical chic, che non fa altro che rotolarsi sul proprio ombelico, avvicinandosi soltanto fino a un certo punto alle persone comuni. E anche se leggendo questo libro ho pianto e mi sono immedesimata, talvolta la protagonista mi ha anche fatto arrabbiare, perché vedevo la piccolezza del suo personaggio, che crede di avere il mondo in tasca, ma non fa che inseguire dei sogni borghesi senza mai rassegnarsi. Possibile che ogni protagonista dei libri mazzantiniani sia colta e lavori nell’editoria, abbia un progetto di dottorato alle spalle, conosca poeti slavi sconosciuti a chiunque in Italia? Possibile che ragioni per luoghi comuni, raffinati ed eleganti certo, ma pur sempre cliché?

La risposta a questi quesiti mi è stata involontariamente fornita nel libro successivo, di Luciano Bianciardi, La vita agra. Anche in questo caso mi sono immedesimata  – il protagonista, Bianciardi stesso, parla in prima persona della propria esperienza milanese, e ci ritrovo molti tratti di milanesità a me ostici e che mal sopporto; ma poi, parlando del mondo e della vita in generale, Bianciardi sposa una filosofia che non mi appartiene, e qui mi sono “arrabbiata” contro quel pessimismo senza via d’uscita che lo contraddistingueva. (A proposito, Bianciardi è morto suicida?). Comunque, tornando alla risposta alla mia domanda sui luoghi comuni della Mazzantini, Bianciardi scrive:

E poi viaggiare secondo me non serve a nulla, ai giorni nostri, non ci impari proprio niente. Anche uno che abbia ambizione di scrivere, non è che viaggiando apprenda qualcosa di nuovo, o trovi argomenti da raccontare. Al massimo potrà scrivere qualche articolo di giornale, ma se è una persona seria, tornando si guarda bene dal mettere sulla carta quello che ha visto, o creduto di vedere. Io per esempio ho un amico scrittore, che una volta andò in aereo sino a Pechino, nel Catai, come dicevano gli antichi. Eppure, siccome è uno scrittore serio, tornando non si è mica messo a parlare dei cinesi! Al contrario, ha continuato a parlare dei cecinesi, e fa bene, perché quelli li conosce davvero.

(Luciano Bianciardi, La vita agra, Feltrinelli 2013, prima edizione Rizzoli 1962)

Ora, posto che metà di questo blog, stando a questa affermazione, dovrebbe scomparire – ma posso dire di aver scritto non tanto dei racconti, quanto dei reportage di viaggio, più simili ad articoli di giornale che a racconti o romanzi – la risposta ai miei dubbi sulla Mazzantini è proprio qui. Anche vivendo per qualche tempo in luoghi differenti da quelli che si conoscono, è difficile entrare davvero nella testa di persone con un vissuto così pesante, come quello di chi è stato a Sarajevo durante la guerra. E la Mazzantini ha la pretesa di riuscirci. Perciò, il suo libro può sì avere una funzione pedagogica, di presa di coscienza di una guerra tanto vicina a noi, quanto dimenticata, può sì far immedesimare i lettori italiani; ma sono quasi certa che, se un sarajevita lo leggesse, si arrabbierebbe.

Mi viene però in mente una cosa. E cioè che per conoscere meglio se stessi, è necessario compiere questi viaggi, metaforici o reali, allo scopo di uscire dal sé, per poi raccontare meglio il luogo che si vive e si conosce.

Penso a un documentario che ho visto un mese fa, con protagonista Giovanni Lindo Ferretti. Simpatico o antipatico che possa essere, alcune sue affermazioni non posso che condividerle. Dice in merito a Tabula rasa elettrificata: «Tabula Rasa Elettrificata è un disco dedicato alla Mongolia. Non è un disco esotico, ancor meno etnologico o popolaresco. Forse è l’unico disco rock nella storia dei CCCP/CS». Come dire: non è che siamo tornati e ci siamo messi a fare musica etnica. No, abbiamo fatto rock conoscendo meglio noi stessi, dopo aver visto l’altro da noi. Ed è forse proprio racchiuso tutto qui, il senso del viaggio.


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