Pieghi le gambe sulla sabbia.
Sembri nuotare e in realtà non ti piace neanche troppo stare in acqua.
Sei più in là, giusto qualche passo, quanto serve per guardarti bene.
Una maglia larga, estiva, ed una piccola pashmina colorata. Niente di più.
Le gambe lunghe e sottili, ti giri e mi guardi.
Torni indietro, sempre in silenzio e come sai fare tu mi porgi una conchiglia.
I tuoi occhi verdi brillano di gioia, anche quando dentro porti il cielo nero.
I medici ti hanno detto che forse dovrai operarti ancora, che forse dovranno tagliarti i capelli e certamente non potrai prendere il sole quest’estate.
La vita è un gioco a carte. Non la immagino a scacchi, perchè tra una scopa e un settebello, ci vedo un bicchierino e qualche “guardata di culo”.
Di certo è molto difficile vincere, soprattutto quando il tuo nemico conosce le carte. E forse, senza che noi lo sappiamo, cerca solo di farci giocare al meglio.
Non pensavo che ti avrai mai incontrata.
Faceva veramente freddo quella sera a Roma. Io tornavo a casa; si era rotto il motorino per l’ennesima volta.
Passasti a bordo di una macchina rossa. Non eri da sola.
Abitavi proprio lì, dove io cercavo disperatamente di riaccendere il motorino.
Lui ti toccava i capelli. Io cercavo – imbarazzato – di non guardarti. Poi improvvisamente vi baciaste.
Ti stringeva forte sotto la vita e tu ti buttasti in una nuvola di fumo sul vetro.
Non appena il motore ripartì, facesti un sussulto e ti girasti.
Un secondo è bastato.
Nei giorni seguenti ritornai lì, con la scusa di comprare le sigarette sotto casa tua o la frutta, che costava solo 0,99 cent. al kilo.
Un mese mi servì per ritrovarti. Poi sei scesa, hai aperto il cancello e mi hai guardato.
Ti sorrisi una volta e tu non accennasti neanche una smorfia.
Poi una seconda ed ebbi una visione. Un sorriso tenero, dolce, mai scomposto.
” Mi chiamo Laura, piacere”.
” Ehm, mi chiamo, mi chiamo Carlo. Qui la frutta costa davvero poco”
Tu guardandomi stranita, scoppiasti in una grande risata e tutto cominciò da lì.
Non ci volle molto; tu non cominciasti più a ritornare con quella macchina ed io a ritornare sempre più spesso in quel negozietto.
L’amore è un big bang, non come lo descrive Lorenzo Jovanotti, ma è un lampo improvviso senza precedenti. Alla massa oscura si sostituisce la luce, ed in fondo questo meccanismo sta alla base di ogni cosa.
Solo che spesso crediamo che tutto passi sotto soglia, sotto silenzio e finiamo per non crederci più.
La notte facevamo l’amore sempre. Scoprirti era diventata la mia passione. Non bastava mai, ed ogni dito aveva il suo ruolo, infinito, come lo è il cielo azzurro per il nostro buonumore o una bottiglia di rosso per il nostro palato.
Poi, come sempre, quando eravamo da te, prendevi il tuo libro. Ne avevi tanti ma Hemingway lo tenevi sempre sul comodino. Aprivi a caso e leggevi. A voce alta mentre io ti toccavo i capelli e ti abbracciavo.
La notte accusavi spesso dei mal di testa ed io mi alzavo sempre. Buttavi giù di tutto certe sere e pensavo che fosse l’alcol e lo stress dovuto al tuo lavoro.
Tutto il giorno in pronto soccorso, veloce, senza mai fermarti. Mi raccontavi dei tuoi pazienti, del dolore, della sofferenza.
Ed io, da bravo ipocondriaco, ti chiedevo di smetterla.
” Guarda che mica mi trasmettono le patologie solo con lo sguardo”
E ridevi, ridevi sempre.
Con te non ho mai parlato molto di me. Ho sempre preferito ascoltarti, raccontarti quanto bastava e mi accorgevo che ti stavo perdendo.
Volevi entrarmi dentro ed io ponevo un muro, inconsapevolmente.
Preferivo annusarti e giocare un po’.
Quei mesi non avevano giorno e notte. Erano un solo atto. Una canzone. Quella che ti cantavo sempre era “All I want is you”. Gli U2.
La prima volta che te la cantai, andammo con degli amici ad un karaoke sulla Tiburtina.
I ragazzi ti guardavano ed io, come sempre, facevo il geloso. Da bravo pavone mi alzai e chiesi al tipo di potertela cantare.
” You say, you want diamonds on rings of gold…When all I want is you”.
Roccheggiavo d’amore; non me ne fotteva nulla di essere stonato e cantavo “Yeahhhhhhh, All I want is yooooooooooooouuuuuu”
Dopo quella sera, ogni volta che litigavamo, te la inviavo in posta privata su fb e tu l’indomani, mentre andavi in ospedale la cantavi sul mio motorino.
Il mio, che ti regalai dopo un po’.
Quando mi venivi a trovare in biblioteca, mi sussurravi all’orecchio ” Pausa caffè. Smettila di sgobbare che poi mi diventi cieco. Tanto sei un secchione”.
Anche quando mi prendevi in giro eri sensuale. Mi alzavo, uscivamo fuori e mi abbracciavi.
Quel giorno avevi un vestitino chiaro. Me lo ricordo ancora. Bianco, con dei piccoli disegnini rossi ed una cintura leggera di cuoio a cingerti la vita. Capelli sciolti, lunghi e neri e solo un filo d’argento sopra il petto. I sandali e un goccio di Allure sul collo.
I tuoi occhi non guardavano ai miei, non mi stavo accorgendo di nulla.
” Carlo, devo dirti una cosa”
Eri ferma, non ti muovevi più. Non ti capivo.
” Io, io credo di non amarti più. Io penso che forse dovremmo smettere tutto questo”.
” Cosa? Che dici? Aspetta, aspetta; che succede??”.
“Ci ho pensato su – è da un po’ a dire il vero -. Ti prego di non chiamarmi più”.
Io non capivo, la fissavo ammutolito, inerme, piegato.
Ma era il mio ruolo. Stolto l’uomo che crede di capire a menadito la psicologia femminile. Si fa solo del male; puoi solo limitarti ad osservare e cercare di studiare, montando storie e teorie. Ma vana è l’idea di controllare i loro pensieri.
Girò i tacchi e mi lasciò lì, sotto il sole di Giugno, come un beota con in mano un caffè amaro.
Qualche giorno dopo scoprii che era stata ricoverata. Che idiota. Pensare ad un tradimento, oppure ad un cambio di rotta.
Le labbra delle donne non mentono mai. Forse le loro parole ed io dovevo capirlo da quelle, o dagli svenimenti improvvisi o dai suoi mal di testa.
L’aveva fatto per paura, per proteggere me e lei da tutto questo.
Cominciai ad andare ogni giorno da lei. Ma Laura piangeva e mi chiedeva di andare e di non farmi più vedere.
Piangeva e mi tirava a sè in quel lettino che puzzava di tutto il suo profumo.
Quella stanza abitata da solo quattro persone è stata casa sua per tutto il mese di Giugno.
Una di quelle mattine suo padre si avvicinò e per la prima volta ebbe il coraggio di parlarmi: ” Figlio mio, vorrei solo sapere cosa ha in mente Dio per tutti noi e chiedergli di pagare il conto dopo l’amaro. Ed invece sembra arrivare a metà pasto. Ti prego, fai ciò che vuoi, ma poi non farla soffrire ancora, non soffrire più tu. Prendi le tue cose e vattene”.
Non avevo il coraggio di fare niente. Restavo fuori la stanza per ore ed ore, mentre i medici entravano ed uscivano con apparecchi strani. Prima la prendevano e poi la riportavano dentro.
Vomiti, urla. Io in mezzo alla vita senza neanche un paio di remi e lei, una dama oltre oceano per me.
A Luglio terminò quel lungo ciclo di chemio e la prima operazione sembrava avere avuto successo.
Quando uscì dall’ospedale io ero là. Cercai disperatamente i fiori più belli del mondo e tutti gli amici vennero con me a darle il bentornata.
I capelli raccolti, il viso un po’ pallido.
“Perdonami Carlo, ho solo tanta paura”.
Con la voce fioca iniziò a canticchiare: “ It was a strange reaction for someone like you to remain on side, and in a chain reaction I was down and calling for a place to hide”.
La stringevo forte, e in silenzio mi tenevo le lacrime dentro e la forza sovrumana dell’amore. Avevamo paura.
La macchina andava veloce e sentivo tutti i tombini ed i sussulti. Uno dopo l’altro e Roma stravagante si godeva un’estate tersa.
Continuo a fissare la conchiglia mentre il mare inizia a farsi grosso ed il vento ostruisce le nostre parole.
” Ecco perchè oggi volevo che venissimo a mare. Volevo vederti di nuovo così, mentre ridi, parli e mi baci”.
E canto, canto per te: ” All I want is youuuuuuuu, All I want is yoouuuuuuu”.
Il vento alza la sabbia, inizio a soffocare, a piangere, mentre distratta te ne vai via con le tue gambe sottili ed il tuo sorriso di angelo. Ed io non ti vedo più.
di Pietro Maria Sabella All rights reserved