Edgar Allan Poe
Il principio poetico
traduzione dall’originale The poetic principle
di Marco Vignolo Gargini
Parlando del principio poetico, non ho l’obiettivo di essere né esaustivo né profondo. Nel discutere, davvero molto a caso, l’essenza di ciò che chiamiamo Poesia, il mio proposito principale sarà di citare, per trarne delle considerazioni, alcune di quelle poesie minori inglesi o americane che si adattano meglio al mio gusto personale, o che hanno lasciato nella mia immaginazione l’impressione più netta. Per «poesie minori» intendo, ovviamente, poesie brevi. E qui, iniziando, permettetemi di dire poche parole riguardo a un principio piuttosto peculiare che, a ragione o a torto, ha sempre avuto la sua influenza sulla mia valutazione critica della poesia. Io sostengo che non esiste poesia lunga. Io affermo che l’espressione «poesia lunga» è semplicemente una chiara contraddizione in termini.
Non ho bisogno di osservare che una poesia merita la definizione di «poesia» nella misura in cui sa eccitare elevando l’animo. Il valore della poesia sta in rapporto con questa eccitazione esaltante. Ma tutte le eccitazioni sono transitorie, per necessità psicologica. Quel grado di eccitazione, che dà il diritto a una poesia di definirsi tale, non si può sostenere completamente in una composizione che sia di notevole lunghezza. Dopo una mezz’ora, al massimo, soccombe, fallisce, ne segue un senso di repulsa, e allora la poesia non è più una poesia in quanto tale.
Senza dubbio, molti hanno trovato difficoltà a conciliare l’affermazione critica secondo cui il Paradiso perduto va ammirato interamente con fervore, con l’assoluta impossibilità di mantenere, durante la lettura, la quantità di entusiasmo che l’affermazione critica richiederebbe. Questa grande opera, in realtà, va considerata poetica solo quando, perdendo di vista quel requisito vitale di ogni opera d’arte, l’unità, la vediamo soltanto come una serie di poesie brevi. Se, per preservare la sua unità, la sua totalità di effetto e impressione, la leggiamo (come sarebbe necessario) in una sola seduta, il risultato non è altro che un’alternanza costante di eccitazione e depressione. Dopo un passo, di cui sentiamo il vero senso poetico, segue inevitabilmente un altro passo banale che nessun pregiudizio critico può forzarci ad ammirare; ma se, completando l’opera, la leggiamo di nuovo, omettendo il primo libro, cioè cominciando dal secondo, saremo sorpresi nel trovare adesso ammirabile quello che prima condannavamo, e condannabile quello che in precedenza avevamo tanto ammirato. Da tutto ciò ne consegue che l’effetto ultimo, complessivo, o assoluto, persino del migliore poema epico sotto il sole, è una nullità. E questo è il fatto vero e proprio.
Riguardo all’Iliade, abbiamo, se non prove certe, almeno ottime ragioni per credere che fosse concepita come una serie di liriche; ma, concedendo l’intenzione epica, posso solo dire che l’opera è basata su un imperfetto senso dell’arte. L’epica moderna è solo un’imitazione sventata e cieca del presunto modello antico. Ma il tempo di queste anomalie artistiche è finito. Se, in qualche epoca, il poema molto lungo era realmente popolare, cosa di cui dubito, è evidente ormai che nessun altro poema del genere non tornerà mai ad essere popolare.
Che l’estensione di un’opera poetica, ceteris paribus, sia la misura della sua qualità, sembra indubbiamente, a enunciarla così, un’affermazione abbastanza assurda – eppure dobbiamo esserne debitori alle riviste trimestrali. Di sicuro, non ci può essere niente nella pura dimensione, a considerare in astratto, non ci può essere niente nella pura mole, per quanto concerne un volume, che abbia suscitato così incessantemente l’ammirazione di questi tristi pamphlets! Una montagna, certamente, ci impressiona con un senso di sublime grazie al semplice sentimento di magnificenza fisica. Ma nessuno è impressionato in tal modo nemmeno per la grandiosità materiale della Colombiade [1]. Persino le riviste trimestrali non ci hanno insegnato ad essere così impressionati dalla grandiosità. Per ora non hanno insistito a farci misurare Lamartine [2] con i metri cubi, o Pollock con le libbre – ma cos’altro dobbiamo dedurre dal loro continuo cianciare dello «sforzo sostenuto»? Se, in virtù dello «sforzo sostenuto», qualche ometto ha ultimato un poema epico,
lodiamolo apertamente per lo sforzo – ammesso che questa sia in effetti una cosa lodevole – ma asteniamoci dal lodare il poema epico con il motivo dello sforzo. C’è da sperare che il buon senso, nel futuro, preferirà stabilire un’opera d’arte per l’impressione che suscita – per l’effetto che produce – piuttosto che per il tempo impiegato per applicare l’effetto, o per la quantità di «sforzo sostenuto» che è stato ritenuto necessario per produrre l’impressione. Il fatto è che una cosa è la perseveranza e il genio è tutta un’altra cosa – e nessuna rivista trimestrale sulla Terra può confonderli. Tra breve, questa affermazione, insieme a molte che ho appena perorato, sarà accolta come evidente di per sé. Nel frattempo, pur essendo in genere condannate come falsità, esse non riceveranno sostanzialmente danni nella loro verità.
D’altro canto, è chiaro che una poesia può impropriamente essere breve. Una brevità inopportuna degenera nel puro epigrammatismo. Una poesia molto breve, mentre dà origine ogni tanto a un effetto brillante o vivace, non produce mai un effetto profondo e durevole. Per questo ci vuole una ferma pressione dello stampo sulla cera. De Beranger [3] ha composto tantissime cose, mordenti e commoventi, ma in generale troppo prive di peso per imprimersi profondamente nell’attenzione pubblica, e così, come tante altre piume della fantasia, sono state soffiate su solo per essere sibilate dal vento.
Un esempio degno di nota dell’effetto di un’inopportuna brevità nel deprimere una poesia, nel tenerla lontana dalla vista del pubblico, è offerto da questa squisita piccola Serenata:
I arise from dreams of thee
In the first sweet sleep of night,
When the winds are breathing low,
And the stars are shining bright.
I arise from dreams of thee,
And a spirit in my feet
Has led me – who knows how? -
To thy chamber-window, sweet!
The wandering airs they faint
On the dark the silent stream -
The champak odors fail
Like sweet thoughts in a dream;
The nightingale’s complaint,
It dies upon her heart,
As I must die on thine,
O, beloved as thou art!
O, lift me from the grass!
I die, I faint, I fail!
Let thy love in kisses rain
On my lips and eyelids pale.
My cheek is cold and white, alas!
My heart beats loud and fast:
O, press it close to shine again,
Where it will break at last. [4]
Forse pochissimi conoscono questi versi — eppure il loro autore è nientemeno che Shelley. La loro calorosa e tuttavia delicata ed eterea immaginazione sarà apprezzata da tutti, ma da nessuno così del tutto come da chi s’è ridestato dai dolci sogni dell’amata per immergersi nell’aria fragrante di una notte di mezza estate del sud.
Una delle più belle poesie di Willis [5] — la migliore, secondo me, che abbia mai scritto — per questo stesso difetto di inopportuna brevità, senz’altro, non è stata collocata al suo giusto posto dalla considerazione dei critici non meno che da quella del pubblico:
The shadows lay along Broadway,
’Twas near the twilight-tide —
And slowly there a lady fair
Was walking in her pride.
Alone walk’d she; but, viewlessly,
Walk’d spirits at her side.
Peace charm’d the street beneath her feet,
And Honor charm’d the air;
And all astir looked kind on her,
And called her good as fair —
For all God ever gave to her
She kept with chary care.
She kept with care her beauties rare
From lovers warm and true —
For her heart was cold to all but gold,
And the rich came not to woo —
But honor’d well are charms to sell
If priests the selling do.
Now walking there was one more fair —
A slight girl, lily-pale;
And she had unseen company
To make the spirit quail —
’Twixt Want and Scorn she walk’d forlorn,
And nothing could avail.
No mercy now can clear her brow
For this world’s peace to pray;
For, as love’s wild prayer dissolved in air,
Her woman’s heart gave way! —
But the sin forgiven by Christ in Heaven
By man is cursed alway![6]
In questa composizione abbiamo difficoltà a riconoscere il Willis che ha scritto così tanti semplici «versi di società». I versi non sono solo ricchi di ideali, ma pieni di energia, e trasudano una serietà, un’evidente sincerità di sentimento che cercheremo invano in tutte le altre opere di questo autore.
Mentre la mania epica, l’idea che per avere dei meriti in poesia la prolissità è indispensabile, negli ultimi anni è andata gradualmente declinando nella mente del pubblico, grazie alla sua stessa assurdità, la troviamo rimpiazzata da un’eresia troppo palpabilmente falsa per essere tollerata a lungo, ma che, nel breve periodo che è durata, si può dire che sia riuscita a corrompere la nostra letteratura poetica più di tutti gli altri suoi nemici messi insieme. Alludo all’eresia del didascalico. Si è supposto, in modo tacito e dichiarato, diretto e indiretto, che l’ultimo obiettivo di tutta la poesia è la verità. Ogni poesia, si dice, dovrebbe inculcare una morale e da questa morale si deve giudicare il merito poetico dell’opera. Noi americani, particolarmente, abbiamo patrocinato questa felice idea, e noi bostoniani, ancor più in particolare, l’abbiamo sviluppata in pieno. Ci siamo messi in testa che scrivere una poesia semplicemente per la poesia stessa, e riconoscere che tale è il nostro disegno, sarebbe confessare a noi stessi radicalmente che siamo privi di vera dignità e forza poetica: – ma il fatto nudo e crudo è che se solo ci concedessimo di guardare dentro i nostri animi scopriremmo immediatamente non c’è niente sotto il sole, né può esserci alcuna opera del tutto degna, più supremamente nobile, proprio della poesia, della poesia in sé e per sé, della poesia che sia poesia e niente più, della poesia scritta solamente per la poesia.
Con il più profondo rispetto per il «vero» che abbia mai ispirato il cuore dell’uomo, vorrei tuttavia limitarne in qualche misura le modalità d’indottrinamento. Li limiterei per rafforzarli. Non vorrei indebolirli per dissiparli. Le rivendicazioni della Verità sono severe. La Verità non ha simpatia per il mirto. Tutto ciò che è così indispensabile al canto è precisamente ciò con cui essa non ha nulla a che fare. Incoronarla con gemme e fiori significa solo farne un paradosso pomposo. Per rafforzare una verità occorre rigore più che il linguaggio infiorettato. Occorre essere semplici, precisi, tersi. Occorre essere freddi, calmi, distaccati. In una parola, occorre essere in quello stato d’animo che, per quanto possibile, è l’esatto opposto di quello poetico. Dev’essere proprio cieco chi non percepisce la differenza radicale e abissale tra le modalità d’indottrinamento della verità e quelle della poesia. Dev’essere un dottrinario pazzo senza speranza chi, a dispetto di queste differenze, continuerà a insistere nel tentare di riconciliare gli irriducibili olio e acqua della Poesia e della Verità.
Dividendo il mondo della mente nelle sue tre più immediate e ovvie distinzioni, avremo il Puro Intelletto, il Gusto e il Senso Morale. Colloco il Gusto in mezzo, perché è proprio questa la posizione che occupa nella mente. È in stretti rapporti con entrambi gli estremi, ma è separato dal Senso Morale da una così impercettibile differenza che Aristotele non ha esitato a collocare alcune delle sue operazioni tra le stesse virtù. Tuttavia, rintracciamo le funzioni del trio indicato con sufficiente distinzione. Proprio come l’Intelletto ha a che fare con la Verità, così il Gusto ci informa del Bello, mentre il Senso Morale è attento al dovere. Di quest’ultimo, mentre la Coscienza ce ne insegna l’obbligo, e la Ragione l’opportunità, il Gusto si accontenta di rivelarne il fascino: col muovere guerra al Vizio soltanto a causa della sua deformità, della sua sproporzione, della sua ostilità a ciò che è appropriato, armonioso – in una parola, al Bello.
[1] The Columbiad (1807) è un poema epico su Cristoforo Colombo del poeta americano Joel Barlow (1754-1812). (N.d.T.)
[2] Alphonse Marie Louis de Prat de Lamartine (1790 –1869), poeta, scrittore, storico e politico francese. (N.d.T.)
[3] Pierre-Jean de Béranger (1780-1857), poeta e musicista francese. (N.d.T.)
[4] È Indian Serenade (1821) di Percy Bysshe Shelley (1792-1822): “Mi sveglio da sogni di te / nel primo dolce sonno della notte / quando i venti soffiano leggeri, / e le stelle brillano luminose, / mi sveglio da sogni di te, / e uno spirito nei miei piedi / mi ha condotto – chi sa come? – / alla finestra della tua camera, o cara. // Le arie vagabonde svaniscono / nella corrente scura e silenziosa – / profumi di magnolia si perdono / come dolci pensieri in un sogno; / il lamento dell’usignolo, / muore nel suo cuore, / come io morirò sul tuo, / o mia amata! // Oh, alzami dall’erba! / Io muoio, svanisco, mi perdo! / Fa che il tuo amore piova baci / sulle mie labbra e sulle pallide palpebre. /La mia guancia è fredda e bianca, ahimè! / Il mio cuore batte forte e veloce: / oh, premilo ancora al tuo, / dove alla fine si spezzerà!” (N.d.T.)
[5] Nathaniel Parker Willis (1806-1867) poeta americano.
[6] “Le ombre si allungavano su Broadway, / era quasi il tramonto – / e lentamente una bella signora / camminava con il suo orgoglio. / Camminava sola; ma, invisibilmente, / degli spiriti le camminavano accanto. // La pace incantava la strada sotto i suoi passi, / e l’Onore incantava l’aria; / e tutto la guardava con dolcezza / e la chiamava onesta e bella – / perché tutto ciò che Dio le aveva donato / lei lo serbava con cauta cura. // Custodiva con cura le sue rare bellezze – / dagli amanti ardenti e sinceri – / perché il suo cuore era freddo a tutto fuorché all’oro, / e i ricchi non venivano a corteggiarla – /ma onorate sono le grazie in vendita / se la vendita sono i preti a farla. // Ora lì camminava un’altra più bella – / una ragazza esile, pallida come un giglio; / e aveva una compagnia invisibile / che sgomentavano il suo spirito – / tra povertà e disprezzo camminava desolata, / e niente poteva consolarla. // Nessuna pietà può adesso rischiarare la sua fronte / e pregare per la sua pace terrena; / poiché, come folle preghiera d’amore svanita nell’aria, / il suo cuore di donna si spezza! – / Ma il peccato perdonato da Cristo in paradiso / è sempre maledetto dall’uomo!” (N.d.T.)