Magazine Cultura

Edgar Allan Poe – “La logica del verso” 2

Creato il 18 ottobre 2012 da Marvigar4

la logica del verso

Edgar Allan Poe

La logica del verso

traduzione dall’originale The rationale of verse

di Marco Vignolo Gargini

   Distogliere l’attenzione dal vero argomento in oggetto con ulteriori riferimenti a queste opere non è necessario e sarebbe una debolezza. Non riesco a richiamare alla mente in questo momento un punto essenziale d’informazione che possa essere raccolto da loro, e le abbandonerò qui semplicemente con questa unica osservazione, — che usando tra i numerosi piedi antichi solo lo spondeo, il trocheo, il giambo, l’anapesto, il dattilo e la cesura, mi impegnerò a scandire correttamente qualsiasi ritmo oraziano, o qualunque altro vero che l’umana ingegnosità può concepire. E questo eccesso di piedi chimerici è forse il minimo che proviene dalle supererogazioni dottrinarie. Ex uno disce omnia. Il fatto è che la quantità è un punto nella cui indagine si può fare a meno delle cianfrusaglie del puro apprendimento. Il suo apprezzamento è universale. Non appartiene a nessuna regione, razza o era in particolare. I greci si accostavano alla melodia e all’armonia con orecchie precisamente simili a quelle che noi adoperiamo oggi per scopi affini, e non sarei condannata per eresia se affermassi che un pendolo ad Atene avrebbe vibrato più o meno nello stesso modo con cui un pendolo vibra nella città di Penn.

   Il verso ha origine dal godimento umano per l’uguaglianza, l’idoneità. A questo godimento vanno anche riportati tutti i modi del verso, del ritmo, del metro, della stanza, della rima, dell’allitterazione, dell’ritornello, e altri effetti analoghi. Visto che ci sono dei lettori che di solito confondono il ritmo con il metro, sarà bene dire qui che il primo concerne il carattere dei piedi (ossia l’ordine delle sillabe), mentre il secondo ha a che fare con il numero di questi piedi. Così con «ritmo dattilico» intendiamo una sequenza di dattili. Con «esametro dattilico» comprendiamo un verso o una misura di sei di questi dattili.

   Tornando all’uguaglianza, la sua idea abbraccia quelle di rassomiglianza, proporzione, identità, ripetizione e adattamento o idoneità. Potrebbe persino non essere molto difficile inseguire l’idea di uguaglianza e dimostrare come e perché la natura umana abbia piacere in essa, ma tale indagine, per qualunque scopo adesso in esame, sarebbe un sovrappiù. È sufficiente che il fatto sia innegabile — il fatto che l’uomo deriva il godimento dalla sua percezione di uguaglianza. Esaminiamo un cristallo. Siamo subito interessati dall’uguaglianza tra i lati e gli angoli di una delle sue facce; l’uguaglianza dei lati ci piace e quella degli angoli raddoppia il piacere. Volgendosi a vedere una seconda faccia sotto tutti gli aspetti simile alla prima, questo piacere sembra elevarsi al quadrato; facendo lo stesso con una terza il piacere appare elevato al cubo, e così via. Infatti, non ho dubbi che, se fosse misurabile, si troverebbe che il piacere sperimentato ha rapporti matematici esatti come da me suggerito, vale a dire, fino a un certo punto, oltre il quale si avrebbe una diminuzione in rapporti simili.

   La percezione del piacere nell’uguaglianza dei suoni è il principio della Musica. L’orecchio inesperto può apprezzare solo uguaglianze semplici, come quelle che troviamo nelle arie delle ballate. Mentre se paragoniamo un suono semplice con un altro l’orecchio è troppo occupato per essere in grado di raffrontare l’uguaglianza esistente tra questi due suoni semplici presi congiuntamente, a tra altri suoni semplici simili presi sempre insieme. L’orecchio esperto, d’altro canto, apprezza entrambe le uguaglianze allo stesso istante, anche se è assurdo supporre che siano entrambe udite allo stesso istante. Una è udita e apprezzata da sola, l’altra con la memoria, e l’istante si lega e si confonde con l’apprezzamento secondario. In tal modo, il gusto musicale altamente coltivato non solo gode di queste doppie uguaglianze, apprezzate tutte subito, ma, per mezzo della memoria, coglie con piacere le uguaglianze i cui membri cadono a intervalli così grandi che il gusto non coltivato perde completamente. Che quest’ultimo possa correttamente stimare o entrare nel merito della cosiddetta musica scientifica è naturalmente impossibile. Ma la musica scientifica non ha diritto a un’intrinseca eccellenza; è adatta solo alle orecchie scientifiche. Nel suo eccesso è il trionfo della fisica sulla morale della musica. Il sentimento è sopraffatto dal senso. Nel complesso, i propugnatori delle melodie e armonie più semplici hanno infinitamente tutte le migliori ragioni, sebbene vi siano poche vere argomentazioni su questo soggetto.

   Nel verso, che non può essere altrimenti definito che come una musica inferiore o meno efficace, ci sono, per fortuna, scarse occasioni di complessità. Il suo carattere rigidamente semplice nemmeno la Scienza — neppure la Pedanteria possono di molto snaturare.

   I rudimenti del verso si possono trovare probabilmente nello spondeo. Il germe autentico di un pensiero soddisfatto dell’uguaglianza del suono dovrebbe essere nella composizione di parole di due sillabe, ugualmente accentuate. A rafforzare questa idea troviamo che gli spondei abbondano soprattutto nelle lingue più antiche. Possiamo facilmente supporre che il secondo passo sia la comparazione, cioè della collocazione di due spondei — o due parole composte ognuna da uno spondeo. Il terzo passo sarebbe la giustapposizione di tre di queste parole. Ma stavolta la percezione della monotonia dovrebbe indurre ad un’ulteriore considerazione: e così si sarebbe originato ciò che Leigh Hunt [1] si dimena così tanto ad esaminare sotto il titolo di Il Principio della Varietà nell’Uniformità. Naturalmente non c’è alcun principio nell’argomentazione — né nel sostenerla. L’«Uniformità» è il principio — la «Varietà» non è altro che la naturale salvaguardia del principio dall’autodistruzione per eccesso di sé. «Uniformità», inoltre, è la peggiore parola in assoluto che si poteva scegliere per esprimere l’idea generale alla quale si riferisce.

   Avendo la percezione di monotonia originato un tentativo di arrecare a sé un alleviamento, il primo pensiero in questa nuova direzione sarebbe stato quello di riunire due o più parole formate ciascuna da due sillabe differentemente accentuate (ossia, una breve e una lunga) ma con lo stesso ordine in ogni parola — in altri termini, di riunire due o più giambi o due o più trochei. E qui lasciatemi prendere una pausa per affermare che sono state scritte più pietose sciocchezze sull’argomento delle sillabe brevi e lunghe che su qualunque altro soggetto al mondo. In generale, una sillaba è lunga o breve a seconda che sia di difficile o facile enunciazione. Le sillabe naturalmente lunghe sono quelle piene di consonanti — le the sillabe naturalmente corte sono quelle sgombre di consonanti; tutto il resto è solo artificio e gergo. Le prosodie latine hanno una regola secondo cui «una vocale davanti a due consonanti è lunga». Questa regola è dedotta dall’autorità —vale a dire, dall’osservazione che le vocali, nei poemi antichi, sono sempre così collocate nelle sillabe lunghe per le leggi della scansione. La filosofia della regola è intoccabile e sta semplicemente nella difficoltà fisica di dar voce a tali sillabe — di eseguire le necessarie evoluzioni linguistiche per la loro emissione. Naturalmente, non è la vocale che è lunga (sebbene la regola dica così), ma la sillaba di cui la vocale è una parte. Si noterà che la lunghezza di una sillaba, dipendendo dalla facilità o difficoltà della sua enunciazione, deve avere grandi variazioni nelle diverse sillabe; ma ai fini del verso supponiamo una sillaba lunga uguale a due brevi, e correggiamo la naturale deviazione da questo principio relativo nella lettura. Tanto più strettamente le nostre sillabe lunghe si avvicinano a questa relazione con le nostre brevi, tanto migliore, ceteris paribus, sarà il nostro verso: ma se non esiste la relazione di per sé noi la forzeremo con l’enfasi, che può, naturalmente, rendere ogni sillaba lunga quanto si desidera; — o, con uno sforzo possiamo pronunciare con innaturale brevità una sillaba che è naturalmente troppo lunga. Le sillabe accentuate sono, ovviamente, sempre lunghe, ma dove non sono gravate dalle consonanti, devono essere classificate tra le innaturalmente lunghe. La semplice abitudine ha dichiarato che le dovremo accentare — cioè, indugiarvi; ma nessuna inevitabile difficoltà linguistica ci costringe a farlo. Infine, ogni sillaba lunga deve di sua spontanea volontà occupare nella sua emissione, o deve essere forzata a occupare, precisamente il tempo richiesto per due sillabe brevi. L’unica eccezione a questa regola si trova nella cesura — di cui parlerò tra poco.

   Il successo dell’esperimento con i trochei o i giambi (l’uno avrebbe suggerito l’altro) deve aver portato ad una prova con i dattili o gli anapesti—dattili o anapesti naturali — parole dattiliche o anapestiche. E adesso un certo grado di complessità è stato raggiunto. C’è da apprezzare, in primo luogo, l’uguaglianza tra parecchi dattili o anapesti e, in secondo luogo, quella congiuntamente tra la sillaba lunga e le due brevi. Ma qui si potrebbe dire che si è proseguito passo dopo passo, continuando questa routine, finché non furono esauriti tutti i piedi delle prosodie greche. Ma non è così, dal momento che questi piedi restanti esistono solo nel cervello degli scoliasti. Non c’è bisogno di immaginare uomini che inventano queste cose, ed è folle spiegare come e perché le inventarono, finché non si sia mostrato che esse furono veramente inventate. Tutti gli altri «piedi», oltre a quelli che ho indicato, sono, se non impossibili a prima vista, pure combinazioni degli altri specificati; e, sebbene questa affermazione sia rigorosamente vera, la metterò in una forma piuttosto diversa, per evitare fraintendimenti. Dirò, allora, che al momento non sono al corrente di alcun ritmo — né credo che nessuno possa essere costruito — che, in ultima analisi, non si trovi costituito completamente dei piedi che ho menzionato, o esistenti nella loro condizione individuale e ovvia, o intrecciati tra loro in accordo con semplici leggi naturali che tenterò di puntualizzare in seguito.

   Siamo così giunti a supporre uomini che costruiscono indefinite sequenze di parole spondaiche, giambiche, trocaiche, dattiliche o anapestiche. Nell’estendere queste sequenze, essi sarebbero stati arrestati di nuovo dalla sensazione di monotonia. Una successione di spondei sarebbe stata immediatamente sgradita; una di giambi o trochei, a causa della varietà inclusa nei piedi stessi, avrebbe cominciato scontentare dopo un tempo maggiore, una di dattili o anapesti, dopo un tempo ancora maggiore; ma persino l’ultima, se molto estesa, deve essere diventata insopportabile. L’idea di accorciare all’inizio, e secondariamente di definire, la lunghezza di una sequenza dev’essere nata subito così. Ed ecco quindi la linea del verso vero e proprio. [2] Essendo il principio di uguaglianza costantemente in fondo all’intero processo, i versi sarebbero stati naturalmente costruiti, in prima istanza, uguali nel numero dei piedi; in seconda istanza, ci sarebbe stata una variazione nel semplice numero; un verso sarebbe stato lungo il doppio di un altro, poi uno sarebbe stato in modo meno ovvio multiplo di un altro; infine sarebbero state adottate proporzioni meno evidenti — nondimeno ci sarebbe stata ancora una proporzione, ossia, una fase di uguaglianza.

   Introdotti così i versi, la necessità di definirli distintamente all’orecchio (dal momento che il verso scritto non esiste), avrebbe portato a un attento esame delle capacità delle loro desinenze — e così sarebbe sorta l’idea di uguaglianza nel suono tra le sillabe finali — in altri termini, della rima. Al principio, la rima sarebbe stata usata solo nei ritmi giambici, anapestici e spondaici (dando per scontato che gli ultimi non fossero stati messi da parte prima, a causa della loro debolezza), perché in questi ritmi essendo lunga la sillaba conclusiva, avrebbe potuto sostenere meglio il necessario protrarsi della voce. Non poteva tuttavia trascorrere tanto tempo prima che l’effetto, ritenuto sia piacevole che utile, venisse applicato ai due rimanenti ritmi. Ma poiché la forza principale della rima deve essere nella sillaba accentata, il tentativo di creare la rima in questi due rimanenti ritmi, il trocaico e il dattilico, avrebbe dato necessariamente come risultato rime doppie e triple, come, ad esempio, beauty con duty (trocaico), e beautiful con dutiful (dattilico).

   Bisogna osservare che suggerendo questi processi io non assegno loro nessuna data, né insisto nemmeno sul loro ordine. Si suppone che la rima sia d’origine moderna, e là dove questo fosse dimostrato le mie posizioni rimarrebbero intatte. Posso dire, comunque, di passaggio, che parecchi esempi di rima si trovano nelle Nuvole di Aristofane, e che i poeti romani occasionalmente le usavano. C’è un genere efficace dell’antico comporre in rima che non è mai passato ai moderni: quello in cui l’ultima e la penultima sillaba rimano fra loro. Per esempio:

Parturiunt montes et nascitur ridiculus mus. [3]

   E ancora:

Litoreis ingens inventa sub ilicibus sus. [4]

   Le chiuse del verso ebraico (per quanto si possa capire) non mostrano alcun segno di rima; ma può una persona ragionevole dubitare che esistesse veramente? Che gli uomini abbiano così ostinatamente e ciecamente insistito, in generale, pure fino ai giorni nostri, nel confinare la rima alla fine dei versi, quando il suo effetto sarebbe persino meglio applicabile altrove, sottintende, secondo la mia opinione, il senso di una qualche necessità nella connessione della fine del verso con la rima — suggerisce che l’origine della rima risieda nella necessità che la univa alla fine del verso — mostra che né il puro caso né la pura fantasia dettero adito a questi rapporti, in una parola, alla effettiva necessità che io ho suggerito (di una qualche maniera di definire i versi secondo l’orecchio), come la vera origine della rima. Se si ammette questo spingiamo l’origine della rima molto lontano nella notte dei tempi — oltre l’origine del verso scritto.

   Ma riassumiamo. L’insieme della complessità ottenuta che ho ora ipotizzato è davvero considerevole. Vari sistemi di uniformità sono apprezzati contemporaneamente (o quasi) nei loro rispettivi valori e nel valore di ciascun sistema con riferimento a tutti gli altri. Come ultime condizioni di complessità, siamo arrivati adesso a versi dattilici naturali con tre rime, – versi che esistono secondo proporzione e uguaglianza nei confronti di altri versi dattilici naturali con tre rime. Per esempio:

Virginal Lilian, rigidly, humblily dutiful;
Saintlily, lowlily,
Thrillingly, holily
Beautiful! [5]

   Qui, per prima cosa, apprezziamo l’assoluta uguaglianza tra la sillaba lunga di ogni dattilo e le due brevi; in secondo luogo, l’assoluta uguaglianza di ogni dattilo con ogni altro, in altri termini, tra tutti i dattili; in terzo luogo, l’assoluta uguaglianza tra i due versi centrali; in quarto luogo, l’assoluta uguaglianza tra il primo verso e gli altri tre presi insieme, in quinto luogo, l’assoluta uguaglianza tra le ultime due sillabe delle rispettive parole dutiful e beautiful; in sesto luogo, l’assoluta uguaglianza tra le ultime due sillabe delle rispettive parole lowlily e holily; in settimo luogo, l’uguaglianza approssimativa tra la prima sillaba di dutiful e la prima sillaba di beautiful; in ottavo luogo, l’uguaglianza approssimativa tra la prima sillaba di lowlily e quella di holily; in nono luogo, l’uguaglianza proporzionale (di cinque a uno) tra il primo verso e ognuno dei suoi membri, i dattili; in decimo luogo, l’uguaglianza proporzionale (di due a uno) tra ognuno dei versi centrali e i suoi membri, i dattili; in undicesimo luogo, l’uguaglianza proporzionale tra il primo verso e ognuno dei due versi centrali, di cinque a due; in dodicesimo luogo, l’uguaglianza proporzionale tra il primo verso e l’ultimo (di cinque a uno); in tredicesimo luogo, l’uguaglianza proporzionale tra ognuno dei versi centrali e l’ultimo (di due a uno), infine, l’uguaglianza proporzionale, riguardo al numero, tra tutti i versi presi insieme e ogni verso singolo (di quattro a uno).

   La considerazione di quest’ultima uguaglianza avrebbe fatto nascere immediatamente l’idea di stanza [6], vale a dire, l’isolamento dei versi in masse uguali o evidentemente proporzionali. Nella sua forma primitiva (che fu anche la migliore) la stanza avrebbe avuto molto probabilmente un’assoluta unità. In altre parole, la rimozione di uno solo dei suoi versi l’avrebbe resa imperfetta, come nel caso sopra, in cui se l’ultimo verso, per esempio, fosse tolto non ci sarebbe più rima in dutiful del primo. La stanza moderna è eccessivamente libera e, là dove capita, naturalmente inefficace.

   Ora, nonostante sembri che ci sia un infinita complessità nelle affermazioni intenzionalmente scritte qui da me di questi vari sistemi di uguaglianza, tanto che è difficile concepire che la mente possa prendere atto di tutte nel breve periodo occupato dalla lettura o dalla recita della stanza, tuttavia la difficoltà è di fatto apparente solo quando noi vogliamo che lo diventi. Chiunque sia appassionato di esperimenti mentali può soddisfare se stesso, con la prova che, ascoltando i versi, esso in realtà (sebbene con una parvenza di inconsapevolezza, a causa delle rapide evoluzioni della sensazione) riconosce e istantaneamente apprezza (con più o meno intensità a seconda della sua cultura) ognuna e tutte insieme le uguaglianze descritte. Il piacere ricevuto o che si può ricevere presenta un enorme aumento progressivo, e quasi in quelle proporzioni matematiche, che io ho suggerito nel caso del cristallo.


[1] James Henry Leigh Hunt (1784-1859), scrittore, critico inglese.

[2] Verso, dal latino vertere, girare, è così chiamato a causa del giro o ripresa della serie dei piedi. Così un verso è in senso stretto una linea. In questo senso, tuttavia, ho preferito usare solo la seconda parola, usando la prima nell’accezione generale data all’inizio di questo scritto. (N.d.A.)

[3] Quinto Orazio Flacco, Epistularum libri, Liber alter, III, Ars poetica, v. 139: “Partoriscono le montagne e nasce un ridicolo topolino”. (N.d.T.)

[4] Virgilio, Eneide, III, v. 390: “Sotto gli elci del lido troverai una grande scrofa” (N.d.T.)

[5] “Vergine Liliana, severamente, umilmente rispettosa; / Santamente, umilmente, / Appassionatamente, devotamente / Bella!” (N.d.T.)

[6] Una stanza è spesso volgarmente, e con rozza improprietà, chiamata verso (N.d.A.).



Potrebbero interessarti anche :

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog

Possono interessarti anche questi articoli :