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Edgar Allan Poe – “La logica del verso” 3

Creato il 19 ottobre 2012 da Marvigar4

la logica del verso

Edgar Allan Poe

La logica del verso

traduzione dall’originale The rationale of verse

di Marco Vignolo Gargini

   Si osserverà che io parlo di un’uguaglianza soltanto approssimativa tra la prima sillaba di dutiful e quella di beautiful, e qualcuno potrebbe chiedere perché non possiamo immaginare che le originarie rime abbiano avuto un’uguaglianza di suono assoluta anziché approssimata. Ma l’uguaglianza assoluta avrebbe implicate l’uso di parole identiche, ed è l’identità duplicata o la monotonia, quella del senso come quella del suono, che avrebbe causato il rifiuto di queste rime in primissima istanza.

   La ristrettezza dei limiti entro cui un verso composto solo da piedi naturali deve necessariamente esser stato confinato, avrebbe portato, dopo un brevissimo intervallo, alla prova e all’immediata adozione dei piedi artificiali, cioè, dei piedi non costituiti ciascuno di una singola parola ma due, o persino di tre parole, o di parti di parole. Questi piedi sarebbero stati inframmezzati con quelli naturali. Per esempio:

ă brēath | căn māke | thĕm ās | ă breāth | hăs māde. [1]

   Questo è un verso giambico in cui ogni giambo è formato da due parole. Ancora:

Thĕ ūn | ĭmā | gĭnā | blĕ mīght | ŏf Jōve. [2]

   Questo è un verso giambico in cui il primo piede è composto di una parola e di una parte di una parola; il secondo e il terzo di parti prese dal corpo o dall’interno di una parola; il quarto di una parte e di una parola intera; il quinto di due parole complete. Non vi sono piedi naturali in nessuno dei due versi. Ancora:

Cān ĭt bĕ | fānciĕd thăt | Dēĭty | ēvĕr vĭn | dīctĭvely |
Māde ĭn hĭs | īmăgĕ ă | mānnĭkĭn | mĕrely tŏ | māddĕn ĭt? |[3]

   Questi sono due versi dattilici in cui troviamo dei piedi naturali (Deity, mannikin); piedi composti di due parole (fancied that, image a, merely to, madden it); piedi composti di tre parole, (can it be,made in his); un piede composto di una parte di una parola (dictively); e un piede composto di una parola e una parte di una parola (ever vin).

   E adesso, nel nostro procedimento suppositivo, siamo andati così lontano da esaurire tutte le essenzialità del verso. Ciò che segue, parlando rigorosamente, potrebbe essere considerato come un puro abbellimento, ma persino in questo abbellimento il senso rudimentale dell’uguaglianza sarebbe stato l’impulso incessante. Per esempio, semplicemente nella ricerca ulteriore di una gestione in questo senso che gli uomini sarebbero giunti col tempo a pensare al refrain o ritornello, là dove, nelle chiuse di parecchie stanze di un poema, una parola o una frase è ripetuta; e l’allitterazione, nella cui forma più semplice una consonante è ripetuta all’inizio di varie parole. Questo effetto sarebbe esteso in modo da comprendere ripetizioni sia di vocali che di consonanti nei corpi come al principio delle parole, e in un periodo successivo avrebbe violato la provincia della rima con l’introduzione di una somiglianza generale di suono tra interi piedi compresi nel corpo di un verso — tutte modifiche che ho esemplificato nel verso sopra.

Made in his image a mannikin merely to madden it.

   Un’ulteriore cura compositiva avrebbe migliorato anche il refrain attenuando la sua monotonia con leggere variazioni della frase a ogni ripetizione, o (come ho tentato di fare in The Raven) conservando la frase e variando la sua applicazione, sebbene quest’ultimo punto non sia soltanto un effetto strettamente ritmico. Alla fine i poeti, esausti di seguire i precedenti esempi, di seguirli tanto più attentamente quanto meno li avvertivano accompagnati dalla Ragione, si sarebbero avventurati tanto in là da permettere l’uso della rima in altri punti anziché alla fine dei versi. Dapprima l’avrebbero messa al centro del verso, poi in qualche punto dove la ripetizione sarebbe stata meno ovvia, e poi ancora, allarmati della loro stessa audacia, avrebbero annullato tutto il loro lavoro tagliando questi versi in due. E qui sta la sorgente prolifica degli infiniti «metri brevi» con cui la poesia moderna, lungi dal distinguersi, è perlomeno caduta in disgrazia. Infatti, ci vorrebbe da parte di chi compone versi un alto grado sia di cultura che di coraggio perché fosse capace di disporre le proprie rime, e lasciarle stare dove sono nella loro posizione indiscutibilmente migliore, cioè quella di intervalli non usuali e inaspettati.

   A causa della stupidità di alcune persone, o (se “talento” è una parola più esemplare), a causa del loro talento per le idee errate — penso sia necessario aggiungere qui, in primo luogo, che io credo che i «procedimenti» citati sopra siano più o meno, se non con precisione, quelli che avvennero nella graduale creazione di ciò che ora noi chiamiamo verso; in secondo luogo, che, pur essendone convinto, non raccomando né i fatti desunti né la mia fede in essi come una parte delle affermazioni effettive di questo saggio, in terzo luogo, che ai fini di questo saggio, non è di alcuna importanza se questi procedimenti siano avvenuti nell’ordine che ho assegnato loro, o non siano avvenuti affatto; visto che il mio intendimento, nel presentare uno schema generale di ciò che tali procedimenti potrebbero essere stati e a cui devono aver rassomigliato, era semplicemente di aiutare «alcune persone» a comprendere facilmente quello che ho ancora da dire sull’argomento del Verso.

   C’è un punto che, nel mio riassunto dei procedimenti, ho di proposito evitato di toccare; perché questo punto, il più importante di tutti a causa dell’immensità dell’errore commesso di solito nel considerarlo, mi avrebbe portato a una serie di dettagli inconsistenti con l’oggetto di una sintesi.

   Ogni lettore del verso deve aver osservato come avvenga raramente che anche un unico verso proceda uniformemente con una successione di piedi assolutamente uguali, come io ho supposto; vale a dire, con una successione di soli giambi, o di soli trochei, o dattili, o anapesti, o spondei. Persino nei versi più musicali troviamo la successione interrotta. I pentametri giambici di Pope [4], per esempio, si dimostreranno all’esame frequentemente variati da trochei all’inizio, o (come sembra da) anapesti nel corpo del verso.

ŏh thōu | whătē | vĕr tī | tlĕ pleāse | thĭne eār |
Dĕan Drā | piĕr Bĭck | ĕrstāff | ŏr Gūl [[Gūll]] | ĭvēr |
Whēthĕr | thŏu choōse | Cĕrvān | tĕs’ sē | rĭoŭs ăir |
ŏr laūgh | ănd shāke | ĭn Rāb | ĕlaĭs’ eā | sў chaīr. |[5]

   Se qualcuno fosse così ingenuo da consultare le prosodie per la soluzione di questa difficoltà, la troverebbe risolta come sempre in una regola, che stabilisce il fatto (o ciò che, la regola, suppone di essere il fatto), ma senza il minimo tentativo di far ricorso alla logica. «Con una sineresi di due sillabe brevi», dicono i libri, «un anapesto talvolta può essere impiegato al posto di un giambo, o un dattilo al posto di un trocheo… All’inizio di un verso un trocheo è spesso usato al posto di un giambo.»

   Per chiarire nella nostra lingua, sineresi sta per fusione — ma non ci dovrebbe essere alcuna fusione; né mai un anapesto è impiegato al posto di un giambo, o un dattilo al posto di un trocheo. Questi piedi differiscono nel tempo, e nessun piede che differisce così può mai essere legittimamente usato nello steso verso. Un anapesto equivale a quattro sillabe brevi — un giambo solo a tre. Dattili e trochei hanno lo stesso rapporto. Il principio di uguaglianza, nel verso, ammette, è vero, delle variazioni in certi punti, per attenuare la monotonia, come ho già mostrato, ma il tempo è quel punto che, essendo rudimentale, non deve mai essere ad ogni costo manomesso.

   Per spiegare: — in ulteriori sforzi per attenuare la monotonia oltre a quelli a cui ho alluso in sintesi, gli uomini giunsero presto a vedere che non c’era alcuna assoluta necessità di attenersi al numero preciso di sillabe, ammesso che il tempo richiesto per l’intero piede fosse mantenuto integro. Videro, per esempio, che in un verso come

ŏr laūgh | ănd shāke | ĭn Rāb | ĕlaĭs’ eā | sў chaīr. |

   il livellamento delle tre sillabe elais’ ea con le due sillabe che compongono ciascuno degli altri due piedi poteva essere facilmente effettuato pronunciando le due sillabe elais in un doppio tempo veloce. Pronunciando ognuna delle sillabe e e lais con il doppio di rapidità rispetto alla sillaba sy, o la sillaba in, o ogni altra sillaba breve, essi potevano portarle entrambe, prese insieme, alla lunghezza, ossia al tempo, di ogni altra sillaba breve. Questa considerazione premise loro di effettuare la gradevole variazione delle tre sillabe al posto delle due uniformi. E la variazione fu l’obiettivo – variazione all’orecchio. Allora, che senso ha supporre che questo obiettivo sia reso nullo dalla fusione delle due sillabe così da renderle, in effetti, una sola? Naturalmente, non ci dovrebbe essere alcuna fusione. Ogni sillaba deve essere pronunciata il più distintamente possibile (o la variazione si perde), ma con una rapidità doppia rispetto a quella con cui la sillaba breve ordinaria è enunciata. È evidente che le sillabe elais’ ea non compongono un anapesto, e i segni (ă ă ā) della loro accentazione sono erronei. Il piede potrebbe essere scritto con le mezzelune invertite (ā ă ă) esprimendo un tempo doppiamente veloce; e potrebbe esser chiamato un giambo bastardo.

   Ecco un verso trocaico:

Sēe thĕ | dēlĭcăte | fōotĕd | rēin-deĕr. |[6]

   Le prosodie — perlomeno le più accurate — qui stabilirebbero che delicate è un a dattilo usato al posto di un trocheo, e a giustificazione si riferirebbero a quella che chiamano la loro «regola». Altre, variando la stupidità, insisterebbero così per un adattamento su un letto di Procuste (del’cate), un adattamento raccomandato per tutte le parole come silvery, murmuring. etc., che, si dice, dovrebbero non solo essere pronunciate ma scritte silv’ry, murm’ring, e così via, ogni volta che si trovano in una complicazione trocaica. Debbo dire soltanto che «delicate», nelle condizioni citate sopra, non è né un dattilo né un equivalente del dattilo; e suggerirei per esso questa accentuazione: ā ă ă; penso sia bene chiamarla un trocheo bastardo; e che tutte le parole, ad ogni modo, dovrebbero essere scritte e pronunciate pienamente, e quanto più possibile come sono intese naturalmente.

   Circa undici anni fa apparve nel The American Monthly Magazine (allora diretto, credo, dai signori Hoffman e Benjamin,) una recensione delle poesie di Willis [7]; il critico proponeva la sua robustezza, o la sua debolezza, in uno sforzo di dimostrare che il poeta era o assurdamente affettato, o rozzamente ignorante delle leggi del verso; l’accusa era basata completamente sul fatto che Willis facevo uso occasionale proprio di questa parola «delicate», e altre parole simili, nella «eroica misura, che ognuno sa che consiste di piedi di due sillabe». Willis, per esempio, ha spesso versi come

That binds him to a woman’s delicate love —
In the gay sunshine, reverent in the storm —
With its invisible fingers my loose hair.[8]

   Qui naturalmente i piedi licate love, verent in e sible fin, sono giambi bastardi; non sono anapesti e non sono usati impropriamente. Al contrario, il loro impiego da parte di Willis non è altro che uno degli innumerevoli esempi che ha dato di acuta sensibilità in tutte quelle questioni di gusto che si potrebbero classificare sotto il titolo generale di abbellimenti fantasiosi.

   È sempre undici anni fa circa, se non erro, che l’inglese. Horne, l’autore di Orion, uno dei più nobili poemi epici in ogni lingua, pensò fosse necessario fare una prefazione al suo Chaucer Modernizzato con un saggio lunghissimo e evidentemente molto elaborato, la maggior parte del quale si occupava di una discussione del piede apparentemente anomalo di cui abbiamo parlato. Horne approva Chaucer per l’uso frequente che ne fa, sostiene la sua superiorità su tutti i versificatori inglesi, proprio per questo uso, e respingendo indignato l’idea comune di quelli che fanno i versi sulle dita — e che la sillaba superflua sia una grossolanità e un errore — si batte molto cavallerescamente in sua difesa come fosse una «grazia». Non vi sono dubbi che sia una grazia; e ciò che mi rincresce è che l’autore del poema lungo più felicemente verseggiato esistente si sia trovato nella necessità di discutere questa grazia semplicemente come una grazia, in quaranta o cinquanta pagine vaghe, solo a causa della sua incapacità di dimostrare come e perché essa sia una grazia — con una tale dimostrazione la questione sarebbe stata sistemata in un istante.

   Sul trocheo usato al posto di un giambo, come vediamo all’inizio del verso,

Whēthĕr thou choose Cervantes’ serious air,

   non c’è bisogno di dire molto. Il verso mi porta alla tesi generale che, in tutti i ritmi, i piedi prevalenti o distintivi potrebbero essere variati a volontà, e quasi per caso, per l’occasionale introduzione dei piedi — vale a dire, di piedi la cui somma dei tempi sillabici è uguale alla somma dei tempi sillabici dei piedi distintivi. Così il trocheo whēthĕr è uguale, nella soma dei tempi delle sue sillabe, al giambo, thŏu choōse, nella somma dei tempi delle sue sillabe, essendo ciascun piede uguale nel tempo alle tre sillabe brevi. I buoni versificatori che siano anche buoni poeti, riescono ad attenuare la monotonia di una serie di piedi con l’uso di piedi equivalenti soltanto in rari intervalli, e in quei punti del loro argomento che sembrano in accordo con il carattere sorprendente della variazione. Niente di quella attenzione si vede nel verso citato sopra — sebbene Pope abbia alcuni esempi belli di effetto duplicato. Là dove la veemenza dev’essere espressa con forza, non sono sicuro che si sbaglierebbe nel tentare due piedi consecutivi equivalenti — anche se non posso dire di aver mai saputo di un tentativo siffatto, tranne che nel passo seguente, che si trova in Al Aaraaf, un poema infantile scritto da me quand’ero ragazzo. Mi riferisco all’improvviso e rapido apparire di una stella:

Dim was its little disk, and angel eyes
Alone could see the fantom in the skies,
Whĕn fīrst thĕ fāntǒm’s cōurse wǎs fōund tǒ bē
Hēadlǒng hīthĕrward o’er the starry sea.[9]

   Nel «proposito generale» succitato, parlo dell’introduzione occasionale di piedi equivalenti. Talvolta accade che verseggiatori inetti, senza sapere quel che fanno, o perché lo fanno, introducono talmente tante «variazioni» da eccedere nel numero i piedi «distintivi», quando l’orecchio è subito intralciato dal bouleversement del ritmo. Troppi trochei, per esempio, inseriti in un ritmo giambico lo convertirebbero in trocaico. Qui potrei annotare che in tutti i casi i ritmo designato dovrebbe essere cominciato e continuato, senza variazioni, finché l’orecchio abbia avuto tutto il tempo per comprendere cos’è il ritmo. In violazione di una regola così evidentemente fondata nel buonsenso, persino molti dei nostri migliori poeti non hanno scrupoli a iniziare un ritmo giambico con un trocheo, o viceversa; o un dattilico con un anapesto, o viceversa; e così via.

   Un errore alquanto meno insopportabile, ma tuttavia deciso, è quello di iniziare un ritmo non con un piede differente e equivalente ma con un piede «bastardo» del ritmo stabilito. Per esempio:

Māny ǎ | thoūght wĭll | cōme tǒ | mĕmǒry. |

   Qui many a è ciò che ho spiegato essere un trocheo bastardo, e per farmi capire dovrebbe essere accentato con mezzelune invertite. È insopportabile soltanto a causa della sua posizione di piede d’apertura di un trocaico ritmo. Memory, accentato similmente, è anch’esso un trocheo bastardo, ma non insopportabile, sebbene in nessun modo richiesto.

   L’ulteriore illustrazione di questo punto mi permetterà di fare un passo importante.

   Uno dei nostri migliori poeti,. Christofer Pearse Cranch [10], comincia così una bellissima poesia:

Many are the thoughts that come to me

In my lonely musing;

And they drift so strange and swift

There’s no time for choosing

Which to follow; for to leave

Any, seems a losing. [11]

   «Una perdita» (A losing) per Mr. Cranch, naturalmente — ma questo en passant. Qui si vede che l’intenzione è trocaica; — benché questa intenzione non la vediamo nel piede d’apertura come dovremmo, o magari nel verso d’apertura. Leggendo l’intera stanza, tuttavia, percepiamo il ritmo trocaico come schema generale, e così, dopo qualche riflessione, dividiamo il primo verso in questo modo:

Many are the | thōughts thăt | cōme tŏ | mē. |

   Così scandito, il verso sembrerà musicale. E lo è molto. Ed è perché non c’è fine agli esempi di tali versi di musicalità apparentemente incomprensibile, che Coleridge ritenne giusto inventare il suo sistema insensato di ciò che chiama «scansione per accenti» — come se la «scansione per accenti» fosse qualcosa di più di una frase. Là dove Christabel è veramente non approssimativa può essere facilmente scandita secondo le vere leggi (non le regole ipotizzate) del verso, come il più semplice pentametro di Pope; e dove è approssimativa (passim) queste stesse leggi permetteranno a ogni persona di buon senso di mostrare perché è approssimativa e mettere a punto istantaneamente il rimedio per l’ approssimazione.

   A legge e rilegge un certo verso e lo dichiara falso nel ritmo – non musicale. B, tuttavia, lo legge ad A, e A è subito colpito dalla perfezione del ritmo e si stupisce della sua ottusità nel non averlo «afferrato» prima. D’ora in poi ammette che il verso è musicale. B, trionfante, asserisce che è sicuro che il verso è musicale — perché è un’opera di Coleridge — e che è A a non esserlo, visto che l’errore è nella lettura sbagliata di A. Ora, qui A ha ragione e B torto. Quel ritmo è erroneo (in un punto o in un altro più o meno ovvio), che ogni lettore normale possa, senza volerlo, leggere impropriamente. È compito del poeta costruire i suoi versi in modo tale che l’intenzione possa essere subito colta. Anche quando questi uomini hanno esattamente la stessa comprensione di una frase, differiscono, e spesso largamente, nei modi di enunciarla. Chiunque si sia preso l’onere di esaminare l’argomento dell’enfasi (con cui qui io non intendo l’accento di particolari sillabe, ma l’indugiare su intere parole), deve aver notato che gli uomini enfatizzano nella maniera più singolarmente arbitraria. Ci sono molte categorie di persone, per esempio, che persistono a enfatizzare i monosillabi. Ben poca uniformità nell’enfasi prevale; perché la cosa stessa — l’idea, di enfasi — non si riferisce a nessuna legge naturale — almeno a nessuna legge ben compresa e perciò uniforme. Al di là di un limite strettissimo e vago, l’intero argomento è la convenzionalità. E se si differisce nell’enfasi anche quando c’è accordo nella comprensione, quanto più si differisce così nella prima quando nell’ultima non c’è accordo! Comunque, eccetto la considerazione del naturale disaccordo, non è chiaro che, inciampando qua e sfociando là, ogni sequenza di parole può essere avvolta a qualsiasi specie di ritmo? Ma ne dobbiamo dedurre che tutte le sequenze delle parole sono ritmiche nel significato razionale del termine? — poiché questa è precisamente la deduzione a cui la reductio ad absurdum porterà, infine, tutte le proposte di Coleridge. Su cento lettori di Christabel, cinquanta non verranno a capo del suo ritmo, mentre quarantanove dei restanti, con qualche difficoltà, saranno sicuri d’averlo compreso, dopo la quarta o la quinta lettura. L’unico tra tutti i cento che lo comprenderà e l’ammirerà a prima vista dovrà essere una persona inspiegabilmente intelligente — e io sono troppo modesto per avere la presunzione, per un momento, che quella persona intelligente sono io.


[1] Verso 54 tratto dalla poesia di Oliver Goldsmith (1730-1774) The Deserted Village: “Un respiro può crearli, come un respiro li ha creati”. (N.d.T.)

[2] “La potenza inimmaginabile di Giove”. (N.d.T.)

[3] “Si può immaginare che la divinità vendicativamente /Abbia mai creato a sua immagine un manichino per esasperarlo?” (N.d.T.)

[4] Alexander Pope (1688-1744), uno dei massimi poeti inglesi del XVII secolo, traduttore dell’Odissea e autore di saggi. (N.d.T.)

[5] La quartina di Pope è tratta da The Dunciad, vv. 19-22: “Oh tu, qualunque titolo ti piaccia ascoltare, / Dean, Drapier, Bickerstaff o Gulliver! / o scegli il tono serio di Cervantes / o il riso e il dondolio nella comoda poltrona di Rabelais”. (N.d.T.)

[6] “Vedi le zampe delicate della renna” (N.d.T.)

[7] Nathaniel Parker Willis (1806-1867) poeta americano che divenne amico di Poe. (N.d.T.)

[8] Sono tre versi tratti da poesie differenti di Willis (Hagar in the Wilderness II, v. 29; Love of Nature v. 14; Dawn, v. 8): “Che lo lega all’amore delicato di una donna – Sotto il sole allegro, umile nella tempesta – Con le sue dita invisibili i miei capelli sciolti”. (N.d.T.)

[9] “Era opaco il suo piccolo disco, e gli occhi d’angeli / soltanto potevano vedere il fantasma nei cieli / Quando dapprima il corso del fantasma si trovò ad essere / a capofitto sprofondato per il mare stellato” (N.d.T.)

[10] Christofer Pearse Cranch (1813-1892) scrittore e poeta americano esponente dei “Trascendentalisti”.

[11] “Molto sono i pensieri che mi vengono / nelle mie solitarie riflessioni; / E vagano così strane e rapide /Non c’è tempo per scegliere / Quale seguire; perché lasciarne / Una, sembra una perdita. (N.d.T.)



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