Editor & Editing
Uccidere un libro
e il suo autore
di Iannozzi Giuseppe
L’editing è morboso, il più delle volte lo è. Ho letto dei libri – non chiedetemi quali perché tanto non parlo, fatevene una ragione o non fatevela, tanto me ne impipo – che sono solo frutto di un editing pazzesco: tanto di cappello all’editor, o agli editor. Ma però in copertina a questo punto occorrerebbe dare la paternità del libro all’editor e non a quello che ha scritto sì e no un canovaccio senza né grammatica né forma. Solo perché ha messo il pelo nell’uovo non merita la paternità di un libro, che lui non ha mai pensato colla sua propria testa.
Poi ci sono editing che livellano l’opera per darla in pasto a dei canoni di normalizzazione, cioè a quelli della banalità che è la commerciabilità istantanea: vendi oggi subito e domani non ti si fila più nemmeno un cane, giustamente. Le porcherie pensate solo per far soldi, giusto è che finiscano nell’oblio, come minimo.
Poi ci sono le cavolate pensate per essere cavolate: e di quelle a iosa, a partire dal piccolo cabarettista di provincia per finire all’ultima Littizzetto Luciana. Perlomeno adesso Giorgio Faletti scrive gialli e testi di canzoni: che poi, a dirla tutta, tanto più che mai ho asserito il contrario, a me piace Faletti. Ce ne fossero di Faletti in giro: perlomeno il giallo avrebbe una dignità più alta rispetto a quella di oggi.
Discorso a parte meritano Francesco Guccini e Loriano Macchiavelli: quando scrivono insieme, scrivono da Dio, che ti vien voglia di urlare “se tutti scrivessero gialli come sanno far loro, allora leggerei solo gialli.” Ma loro sono due scrittori, con la S maiuscola, non dei novellini con smanie di sangue sulla carta: raccontano il giallo con tono omerico e a tratti zoliano. Con Guccini e Macchiavelli si va incontro a qualche cosa che è molto di più di un semplice giallo scritto tanto per.
Le opere che sono di sola tecnica sono senz’anima: il lettore, perlomeno chi ha letto un po’ di libri in vita sua, se ne accorge che il libro è uno zombie, o un golem nel migliore dei casi. Un libro nato morto resta tale: e il lettore se ne accorge subito dopo le prime pagine. Il critico, se è un vero critico, dopo due pagine ha già capito che si trova di fronte al frutto della sterilità prodotta in laboratorio.
Spesse volte un editing è necessario, ma quando è troppo calcato svilisce l’opera originale così com’era stata pensata.
Il problema è che oggi si tende sempre più a calcare la mano per andare incontro a dei canoni di commerciabilità: a volte il gioco riesce, altre no. Quando non riesce, si è mandato al diavolo l’autore, la sua opera e il suo futuro.
L’editing deve solo correggere e non riscrivere: quando diventa un lavoro di riscrittura, allora meglio è restituire al mittente il lavoro.
C’è un livellamento delle opere in sé nonché delle tematiche trattate, soprattutto da parte degli esordienti: facile che se un libro vende perché mette il dito nella piaga del precariato, subito dopo ci sono almeno altri venti che ci provano a tentare il colpo gobbo, ovvero a fregare il pubblico con un lavoro simile a quello che ha già avuto successo. Ma il successo non si replica quasi mai. Nulla di strano. Così “Tutti giù per terra” rimane una pietra miliare per dire del precariato e dell’arte d’arrangiarsi; chi è venuto dopo ha cercato di dire le stesse cose, con ironia anche, non trovando però una valvola di sfogo che fosse di originalità. Se Melissa P. ha scritto “Cento colpi di spazzola…”, altre mille lolite ci hanno provato a piazzare i loro pensierini sul mercato editoriale: forse non hanno incontrato l’editor giusto che aggiustasse i loro pensierini scritti alla bell’e meglio, o forse mancava loro l’immagine, ma di emulatrici – e simulatrici – di Melissa P. gli scaffali sono pieni. Nessuna che abbia ottenuto un successo uguale a quello di Melissa. E lei stessa, oggi, non è che riscuota più tanto successo, nonostante gli articoletti su L’Espresso e la lettera al Cardinale Ruini. Il problema è che, come tutte le lolite, pure lei è cresciuta: si è fatta donna, e una donna che non sa scrivere non interessa all’editoria, nemmeno a quella più morbosa.
Il carverismo poi è un’altra piaga, non minore di quella bukowskiana: ci sono tanti e tanti a imitare o Carver o Bukowski, e il risultato è un non-risultato, una sega sotto anestesia.
Ad esempio, si prendano tre autori della scuderia Minimum Fax: Paolo Cognetti, “Manuale per ragazze di successo”, Marco di Marco, “Muovendoci come Gechi”, Valeria Parrella, “Mosca più balena”.
“Trascorse i successivi quarantacinque minuti in bagno. Asciugò il pavimento dalla doccia di Luca, raccolse i panni e poi si spogliò. Si aggiustò le unghie, le unghie crescevano senza che lei dovesse pensarci due millimetri a settimana, si spalmò tutto il corpo di olio di cocco, poi si asciugò poco, per restare lucida”.
“In cucina la tavola è apparecchiata per due, e in una pentola sul fornello c’è una montagna di zucchine lesse, saranno state tre chili. Il coperchio, appoggiato in cima alla massa verde senza nessuna utilità che non sia estetica, sembra lo strato di glassa su una torta nuziale. Mi verso un bicchiere del bianco che Guido ha aperto per sé, poi mi siedo, appoggio la schiena al muro, mi accendo una sigaretta”.
“Gli accarezzo le gambe dal basso verso l’alto e sento le punte ispide sotto le mani. Poi mi metto steso sulla schiena e mi torturo la fronte con le dita, misuro la profondità delle stempiature, mi strofino avanti e indietro i capelli, mi ritrovo tra le mani qualcuno di questi sottili fili biondi. Li lascio cadere sul pavimento. Vado in bagno e apro il getto della doccia… Infilato nell’accappatoio mi guardo allo specchio, controllo le rughe intorno agli occhi, cospargo tutta la zona con della crema antinvecchiamento. Cerco di accaparrarmi tranquillità con ogni gesto”.
Periodi brevi o brevissimi.
Nessuna reinvenzione linguistica per i tre autori.
Due su tre usano l’indicativo presente, solo un autore il passato remoto.
Non hanno stile.
Se si prova a leggerli tutt’e tre di seguito, essi sembrerebbero lo stesso autore.
Stessa identica catena di montaggio. Di pensiero. Pensiero uniformato per stile, orrendamente banale, neanche elementare.
Vocaboli usati, i soliti cento o giù di lì.
Massimiliano Parente scrive sulle colonne de Il Riformista, in un pezzo dal titolo “L’editor, il peggior nemico dello scrittore”: “Eppure, tu lo sai bene, un tempo gli scrittori tenevano duro. Non per ragioni speciali, semplicemente perché erano Scrittori. Oggi il libro più amato e letto di Beppe Fenoglio è proprio quel Partigiano Johnny rifiutato da Livio Garzanti. Oggi il libro più letto e studiato di Hermann Melville è Moby Dick, che all’epoca non fu capito da nessuno. Oggi sappiamo che aveva ragione Faulkner, che Assalonne! Assalonne! è più bello di Sartoris. Oggi continuiamo a studiare Carlo Emilio Gadda che scriveva per cinque lettori, o Kafka o Guido Morselli che sono morti quasi del tutto inediti.”
Carla Benedetti attraverso le colonne de Il primo amore, in un pezzo dal titolo “La scrittura assistita”: “Ma l’editing è ciò che oggi incarna al meglio quella scrittura senza soggetto, dove ciò che si esprime è solo un dizionario preconfezionato. L’idea di narrazione come artigianato la trovi formulata anche dal collettivo di scrittura Wu Ming.”
E come non essere d’accordo con quanto espresso per mezzo di dati di fatto da Massimiliano Parente?
Ma se uno si cava gli occhi da sé proprio per non vedere l’Evidenza e quindi negarla, allora è un altro paio di maniche.
Quando a Céline gli fecero sapere che stavano facendo editing sul suo “Viaggio al termine della notte”, quello che era un autore vero ha subito portato avanti le sue rimostranze: “Questi mi vogliono far scrivere come François Mauriac! Non aggiungere una sillaba senza dirmelo! Mi buttereste all’aria il ritmo come niente!… Ho un’aria scalcinata ma so perfettamente quel che voglio”. Non come gli autori di oggi che pur di vendere una copia in più scrivono di tutto, per tutti, e lasciano in mano tutto all’editor. Un editor, quando è un bravo editor, è soprattutto un correttore di bozze che, eventualmente, propone all’autore di cambiare qualche cosa nel suo scritto. Ma quegli editor che il lavoro lo riscrivono in parte o in toto, be’, non è colpa poi loro, perché la colpa è dell’autore, evidentemente un debole, che di sé non ha rispetto lasciando che il suo lavoro venga manipolato secondo basse leggi di mercato.
Altri tempi quelli di Céline, quando un autore s’inalberava sul serio se qualcuno, d’ufficio, prendeva l’iniziativa di ritoccare anche solo la punteggiatura.