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- Scritto da Filippo Zoratti
- Categoria principale: Rubriche
- Pubblicato: 05 Ottobre 2014
Nel corso dello splendido documentario From Caligari to Hitler, tratto dal libro di Siegfried Kracauer, la voce off ci pone la medesima domanda per almeno tre volte: cosa sa il cinema che noi non sappiamo? Nel 2014 esiste qualcosa che il medium cinematografico può ancora insegnarci? Traslando il quesito, ci pare lecito allargare il discorso ai Festival, che nascono spesso dal basso con budget ridottissimi e dei quali a volte si fatica a comprendere la funzione.
Non è un dilemma di certo nuovo, quello dell'utilità delle rassegne di cinema, ma torna ciclicamente alla ribalta ogni qualvolta l'attenzione si concentra su di un “misterioso” capolavoro tailandese o filippino (il respingente Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti, il Pardo d'Oro From What is Before) o comunque su un'opera che inevitabilmente non incontrerà il favore del pubblico. Ma il pubblico esiste? E se esiste, da chi è composto? Qual è la fantomatica differenza fra critici/esperti/maestranze varie e “spettatore occasionale”?
La vittoria dello svedese A Pigeon Sat on a Branch Reflecting on Existence a Venezia 71 rilancia di gran carriera la questione, non foss'altro per ciò che è accaduto durante la proiezione post-premiazione (dedicata al 90% all'utente che vede un solo film all'anno della Mostra, aspettandosi quindi il presunto “migliore” della selezione): fischi a scena aperta, croniche fuga dalla sala, incomprensione totale anche durante le sequenze comico-grottesche divenute di culto fra i frequentatori del Festival nei giorni precedenti. Una debàcle di cui nessuno ha poi parlato nelle ore successive, per motivi tanto semplici quanto imbarazzanti: la notizia sarebbe già stata obsoleta, e poi diciamocelo, riguardava un film scandinavo che sconosciuto è e sconosciuto resterà. Ergo, chi se ne frega. Non si tratta assolutamente di accettare di default che il vincitore sia “bello” e che la giuria abbia deciso bene, al contrario: ciò che manca totalmente è il rispetto per un'opera dell'ingegno umano, seguito a ruota dall'ormai alieno sforzo per capire il significato di ciò che viene proposto.
Si tratta, senza mezza termini, di un indiscutibile “analfabetismo filmico”: non comprendo ciò che ho di fronte; esclusa la possibilità di un ragionamento, mi limito a disprezzare e rigettare. Lo spettatore oggi – imbibito di reality show e vuoto pneumatico socio-televisivo, di superficialità culturale che spinge agli estremi eliminando le faticose sfumature di mezzo – è convinto di essere sempre protagonista, di avere sempre qualcuno che lo guarda mettendolo al centro dell'attenzione. Abbiamo ampiamente sfondato il paradosso di Reality di Garrone, in cui un pescivendolo si convince di essere messo alla prova 24 ore su 24 dal Grande Fratello della Marcuzzi.
E' stata rasa al suolo la capacità di giudizio, di intendere e di volere l'Arte, sempre più orpello sacrificabile. Il critico Roy Menarini, dalle pagine “non istituzionali” di Facebook, invoca l'introduzione della Media Literacy nelle scuole, “altrimenti rimarremo l'Italia che vediamo in Belluscone”. In pratica bisogna ripartire da zero, ed insegnare al pubblico “medio” ad avere familiarità con testi eterogenei e articolati. E i Festival, luoghi deputati alla cultura che conoscono benissimo l'abisso esistente fra addetti ai lavori e fruitori casuali, cosa faranno? Continueranno a fingere che vada tutto bene? Si nasconderanno in eterno dietro la scusa del “lavoro di ricerca” che ha sostituito ormai in pianta stabile la non più spendibile motivazione della “vetrina che muove il mercato”?
Di nuovo, molte domande; di nuovo, nessuna risposta.
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