Io chesto tengo:
tengo ‘o pparlà nfaccia.
Pure si m’aggia fà nemico ‘e Ddio
e me trovo cu <<isso>>
faccia a ffaccia,
nfaccia lle dico chello c’aggia dì.
Se scummoglia ‘o fenucchio?
E se scummoglia!
Questi sono i primi versi di una poesia di Eduardo De Filippo, ‘O pparlà nfaccia, una composizione che rispecchia una parte importante del carattere del genio napoletano. Egli stesso, infatti, confessava di essere alquanto burbero, solitario, scostante, aspetti che secondo lui, però, sono stati essenziali nella sua carriera: se non fosse stato un solitario, diceva, non avrebbe studiato, non avrebbe scritto tutte quelle commedie. Severissimo durante le prove a teatro, rigido, schivo nella vita privata e tuttavia sempre pronto ad aiutare la fila di parenti e conoscenti che andavano da lui, sapendo di poter contare su un cuore buono, ha raccolto attorno a sé e formato un gran numero di attori da cui sapeva estrapolare il meglio. Il talento lo considerava importante, sì, ma essenziale era la sfera interna, quello che rende ognuno diverso, e più si era in grado di capire, giocare e usare la propria interiorità più si era bravi. Eduardo era un po’ psicologo e un po’ Socrate, la sua maieutica consisteva nel tirare fuori il sentire degli attori, denudarli delle maschere per poi rimettergliele sul palco, da dove prendeva e, spesso, faceva a pezzi le anime degli spettatori. E proprio come Socrate era durante la rappresentazione delle commedie, il punto dove convergevano tutte le attenzioni, il Maestro attorno al quale ruotavano i discepoli, gli altri attori, che seppur eccelsi non potevano mai essere grandi quanto lui.
Un carattere difficile, dicevamo, che sapevano domare soltanto poche persone. Tra queste vi era sicuramente la sorella Titina, la cui scomparsa gli diede un dolore immenso, paragonabile alla perdita di una madre, ma anche Totò, uno che lo faceva ridere e parecchio, pure. Eduardo, infatti, ebbe modo di raccontare l’aneddoto che gli causò il mutamento della voce, che in origine non era rauca bensì normale. All’epoca sia egli che il Principe non versavano in eccellenti condizioni economiche, specialmente Totò che era in condizioni misere (Eduardo riceveva gli aiuti del suo padre naturale, Eduardo Scarpetta), e una volta De Filippo, ventenne, si ammalò mentre entrambi erano a Palermo, ed era pieno di dolori. Totò andava a curarlo ogni giorno prima e dopo lo spettacolo, e ogni volta lo faceva ridere in modo sfrenato, il che gli faceva sentire ancora più dolore: un giorno fu costretto a cacciarlo via gridandogli fetente!, perché non ce la faceva più. Una volta guarito, a causa pure di quelle risate, la voce non gli tornò come prima, somigliando di più a quella di un uomo anziano. Accadimento, tuttavia, che fece comodo ad Eduardo, in quanto i protagonisti delle sue commedie sono quasi sempre degli anziani, persone che lo hanno sempre attirato fin da quando era giovane.
“Quand’ero piccolo amavo i vecchi, poi a un’età giovanile, non so, frequentavo i vecchi e non i giovani. Perché dai vecchi io apprendevo la saggezza, apprendevo e stavo a sentire quello che mi dicevano. E in quell’epoca i vecchi erano più altruisti. Mi ricordo un particolare: non vedevo l’ora di diventare vecchio”. Sempre Eduardo in persona spiegò perché voleva diventare vecchio, cioè per non essere costretto a truccarsi per sembrare più grande d’età, ma non credo di sbagliare affermando che in realtà altro non desiderava di vedere il suo aspetto fisico adeguato al suo animo: il Maestro era vecchio dentro, doveva esserlo per forza, da figlio illegittimo di Scarpetta, cosa che lo segnato profondamente nei primi dell’adolescenza, cogitabondo sulla propria situazione familiare che rapportava a quella degli altri ragazzi.
I Fratelli De Filippo
Burrascoso era poi il suo rapporto con il fratello Peppino, il quale non aveva la sua stessa visione della vita e del teatro, poiché quest’ultimo era più portato alla spensieratezza, alla comicità, convinto com’era che che il genere farsesco avesse il medesimo valore della tragedia. La loro rottura definitiva arrivò al culmine di varie liti più o meno gravi, quando, nel 1944, Eduardo riprese uno svogliato Peppino davanti a tutti gli altri attori, e costui, in tutta risposta, gli fece il saluto romano urlando “Duce! Duce! Duce!”: i due vennero alle mani e dovettero separarli. la riconciliazione, forse, avvenne poco prima della morte di Peppino, quando l’altro, chiamato dal nipote Luigi che aveva continuando a frequentare abitualmente lo zio, si recò all’ospedale e fu lasciato solo. la sera del giorno delle esequie, cui non partecipò, disse di fronte agli spettatori: “Adesso mi manca. Come compagno, come amico, ma non come fratello”.
Tormentato pure il rapporto con la propria città, Napoli, e in tale ottica è celebre il suo “Fuitevenne!” rivolto ai Napoletani onesti, ai giovani che volevano la speranza nella propria vita, considerazioni giunte al colmo della rabbia nel vedere Napoli in mano al malaffare, alla malapolitica, alla corruzione, alla camorra, qualcosa di senso opposto rispetto alla battuta finale, carica di forza, di Napoli milionaria!: “Ha da passà a nuttata”. Non era un rifiuto verso la gente, era la collera per l’ingratitudine che le istituzioni della città riservava a lui, che per Napoli aveva detto e fatto molto, per i giovani, per la comunità, mettendoci i propri soldi, i propri risparmi. A quasi ottanta anni Eduardo non ce la faceva più a lottare, e dunque invece di Jatevenne! ha detto Fuitevenne!, più di trenta anni fa, un consiglio comprensibile che, per fortuna, non tutti hanno seguìto. D’altra parte il Maestro la propria città l’ha difesa, e proprio, ancora, in Napoli milionaria!, dove si racconta la distruzione che la guerra ha portato nelle famiglie, nelle persone, nei valori; “la guerra non è finita” gridava Don Gennaro, e aveva ragione, giacché continuava nelle case, nelle strade, nella gente: Mariuolo se nasce. E nun se po’ dicere ca ‘o mariuolo è napulitano. Oppure romano. Milanese. Inglese. Francese. Tedesco. Americano… ‘O mariuolo è mariuolo sulamente. Nun tene mamma, nun tene pato, nun tene famiglia. Nun tene nazionalità. E nun trova posto dint’ ‘o paese nuosto. No. Pecché… Siccomme ‘o paese nuosto nun porta na bon’ annummenata… Che vuo’ fa’? È na disgrazia… Appena sentono :«napoletano», già se mettono in guardia. Pecché è stato sempe accussì. Perciò… tu ca si’ giovane, aviss’ ‘a da’ ‘o buono esempio… accussì quanno te truove e siente ca parlano male d’ ‘o paese tuio, tu, cu tutt’ ‘a cuscienza, può dicere: – «Va bene, ma ce stanno ‘e mariuole e ‘a gente onesta, comme e dint’ ‘a tutt’ ‘e paise d’ ‘o munno».
Napoli è stata insieme serbatoio e musa di Eduardo, che ha preso tutto ciò che poteva prendere e l’ha trasferito sui copioni: Napule è nu paese curiuso: è nu teatro antico, sempre apierto. Ce nasce gente ca senza cuncierto scenne p’ ‘e strate e sape recità. L’uso della Lingua Napoletana, anche nelle proprie poesie, le voci, i suoni, le espressioni, le situazioni, gli atteggiamenti, i contesti delle commedie eduardiane sono il concentrato di Napoli, e Napoli è cucita con un filo d’oro nell’opera di colui che è uno dei giganti della drammaturgia di ogni tempo, perché non si accontenta dello spettacolo, ma vuole squarciare le viscere, rendere l’incomunicabile, la vita. Il teatro di Eduardo palpita, arresta il cuore dello spettatore e lo rianima a proprio piacimento, come meglio crede, quando meglio crede; è questa la grandezza di Eduardo De Filippo, aver capito lo spirito dell’essere umano, essere un uomo.
Questo articolo fa parte della rubrica “Figli illustri di Napoli“.