Magazine Cultura
- Vargas Llosa ha scritto che si considera ancora un giornalista. E lei?
Sì, ma c'è una tradizione che crede che il giornalismo sia un esercizio che si pratica nei bassifondi della letteratura e sull'altare c'è la creazione del libro. Non condivido questa divisione in classi. Credo che tutti i messaggi scritti formino parte della letteratura, compresi i graffiti sui muri. Da tempo scrivo soprattutto libri e pochissimi articoli. Ma mi sono formato con questi e porto il marchio della fabbrica. Ringrazio il giornalismo per avermi t irato fuori dalla contemplazione dei labirinti del mio ombelico.
- A volte cita la frase di un anonimo: "Ci pisciano e i giornali dicono che piove". Continua a piovere?
E' un graffiti che ho visto in una strada di Buenos Aires. Le pareti sono le tipografie dei poveri. Continua a piovere. Incominciando dall'imposizione di un linguaggio bugiardo. Quando chiamano contrattisti i mercenari, mentono; anche quando chiamano catastrofi naturali i disastri che il mondo soffre, mentono, perché la natura non ha colpa dei crimini che si commettono contro di lei; si invoca la comunità internazionale e si riferiscono a un club di banchieri e guerrieri che dominano il mondo.
- E' da tempo che non sentiamo dire che la stampa è il quarto potere: siamo scesi di scalino?
No. Si sono sviluppate forme di comunicazione che ti restituiscono la fiducia che questo mondo rovesciato è un centro di paradossi interessante. Internet è nato al servizio dell'industria militare e poi è diventato una cosa diversa. Si sono moltiplicate le voci non ascoltate che suonavano nelle campane di legno. Ha contribuito allo sviluppo di forme alternative di comunicazione. Io sono preistorico e ho bisogno di un giornale che mi si stropicci tra le mani, l'odore dell'inchiostro e della carta. Non posso neanche leggere un libro sullo schermo. Mi piace molto la carta nelle mani, il libro che mi appoggio contro il petto, ascolto mettendolo vicino all'orecchio le parole che trasmette, anche se a volte sembrano morte sulla carta.
- L'incontro dell'AECID e IPS (Galeano ha partecipato alla Settimana della Cooperazione organizzata dalle due entità NdRSO) voleva implicare i media in uno "sviluppo più includente". Ci siamo dimenticati di includere qualcuno, al raccontare la crisi?
C'è stata una manipolazione, che non credo innocente, dei grandi mezzi di comunicazione tale che gli autori della catastrofe, i banchieri di Wall Street, sono finiti in una specie di innocenza, fino a far credere che la colpa della crisi era della Grecia. Ma ci sono anche voci alternative che suonano, come le radio comunitarie. Sono state disprezzate e perseguitate in molti Paesi, ma adesso hanno trovato il loro posto. Le voci della gente, senza intermediari, suonano più vere.
- Esiste una minore implicazione ideologica del giornalista?
Qualunque forma di appoggio alla diversità delle voci umane mi sembra stimolante, abbia la forma che abbia e gli si dia l'etichetta che gli si dia. Credo nella diversità della condizione umana. La cosa migliore del mondo è la quantità di mondi che contiene. In Espejos. Una historia casi universal (2008) ho cercato di contenere il mondo senza fare caso a frontiere, la cartina o il tempo, per celebrare la diversità.
- Gli episodi di violenza contro la stampa degli anni '70 in America Latina si ripetono ai nostri giorni. Il giornalista si può liberare della coazione?
Ci sono spazi di indipendenza che è possibile aprire. In Argentina ho diretto la rivista culturale Crisis. Ma me ne sono dovuta andare perché la rivista ha preferito fermarsi e non inchinarsi davanti alla volontà del colpo di Stato militare trionfante, che implicava una censura ogni volta peggiore. MA fino quando è durata è stata un'esperienza straordinaria. Siamo arrivati a vendere 35mila copie. Per i militari sapeva di sovversione perché si dava la parola a chi era nato per tenere la bocca chiusa. La mia esperienza di vita mi ha insegnato che tutti abbiamo qualcosa da dire agli altri, qualcosa da fare per gli altri, celebrato o almeno perdonato. Alcune voci suonano e altre no. Ci sono molti che sono condannati al silenzio eterno. A volte le voci sconosciute, disprezzate, ignorate sono molto più interessanti di quelle del potere e dei suoi molteplici echi.
- Nel Venezuela, in Argentina, Bolivia. Evuador, i Governi litigano con i mezzi di comunicazione...
Le generalizzazioni corrispondono a una visione della nostra realtà, la latinoamericana o del sud del mondo, che ha il nord. I deboli, ogni volta che cercano di esprimersi o camminare con le loro gambe, risultano pericolosi. Il patriottismo è legittimo nel nord del mondo e nel sud diventa populismo o, ancora peggio, terrorismo. Le notizie sono molto manipolate, dipendono dagli occhi che le vedono o le orecchie che le ascoltano. Lo sciopero della fame dei mapuches, in Cile ha poco o nessuno spazio sui media che hanno maggiore influenza e uno sciopero della fame nel Venezuela o a Cuba merita la prima pagina. Chi sono i terroristi? Sono i pirati che assaltano le barche o quelli che pescano violando leggi e limiti?
- Il presidente venezuelano Hugo Chávez è uno di quelli che discutono con la stampa. Abbiamo un verdetto per lui?
C'è una demonizzazione di Chávez. Prima il nemico del film era Cuba, adesso non più tanto. Ma c'è sempre qualche nemico. Senza nemico, il film non si può fare. E se non c'è gente pericolosa, cosa facciamo delle spese militari? Il mondo deve difendersi. Il mondo ha un'economica di guerra che funziona e ha bisogno di nemici. Se non esistono le fabbriche. Non sempre i diavoli sono diavoli e gli angeli angeli. E' uno scandalo che oggi, ogni minuto, si dedichino 3 milioni di dollari in spese militari, nome artistico delle spese criminali. E questo ha bisogno di nemici. Nel teatro del bene e del male a volte sono intercambiabili, come è successo a Saddam Hussein, un santo dell'Occidente diventato Satana.
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