EDUCARE ALL'AMORE, EDUCARE CON AMORE di Diana Vannini.
Da Csbmedia
Attualmente l'educazione sta vivendo un momento di forte crisi ed è quotidianità parlare di crisi dell'insegnamento, soprattutto in riferimento al dilagante disagio giovanile e alla difficile situazione scolastica e familiare che attiene alla maggior parte dei ragazzi. Contrariamente alla prospettiva settoriale e specialistica che caratterizza il modus pensandi della società occidentale, questo breve saggio si pone l'obiettivo di riscoprire il valore olistico della pedagogia, vissuta non esclusivamente come una tipologia specifica di gnosi, al pari delle altre, da trasmettere in contesti definiti e strutturati, ma come disciplina olistica, attinente alla dimensione antropologica dell'individuo e che non ha inizio o fine, non viene operata solo in alcuni contesti, bensì è inscindibile dal percorso evolutivo della persona. Si può infatti educare alle relazioni, agli affetti, all'etica individuale e sociale, ai valori, ai pensieri e al linguaggio; tutto questo è educazione. Secondo tale punto di vista è possibile affermare, parafrasando Charles Péguy, che “Le crisi dell'insegnamento non sono crisi d'insegnamento; denunciano crisi di vita e sono crisi di vita esse stesse”, dunque non è appropriato parlare tanto di crisi pedagogica, intesa nella sua dimensione circoscritta e specifica, quanto piuttosto di crisi valoriale, sociale, esistenziale. Per vita intendiamo valori, desideri, pensieri, azioni tutto ciò che attiene all'umanità a 360°, nella sua dimensione di cielo e nella sua dimensione di terra. Negli ultimi decenni, è progressivo il cambiamento sostanziale che ha caratterizzato la società industrializzata, relativamente alla struttura familiare e alla trasmissione dei valori: i nuclei familiari hanno dimezzato il numero di membri e di generazioni presenti; il costo della vita, effettivo o presunto in base alla spinta consumistica indotta dai Media, è aumentato e ha reso necessari per la sopravvivenza spesso più stipendi all'interno dello stesso nucleo, e il tutto a scapito dell'educazione. Chi assume ad oggi il ruolo di educatore? Chi sente, vive e agisce questa responsabilità? Purtroppo, a causa di quanto sopra riportato ed a causa di una progressiva svalutazione dell'insegnamento, equiparato ad una qualunque professione, è sempre più frequente la delega a baby sitter mediatiche che non seguono un criterio pedagogico etico, bensì commerciale. Così, fin dalla più tenera età si propaga nell'individuo uno standard di vita indotto dalle esigenze delle multinazionali, che promuovono gustose merendine per i piccoli e caramelle dietetiche per i più grandi, che diffondono canoni estetici insalubri e con scintillanti lucciole artificiali offuscano la luce autentica propria della felicità vera, spontanea e naturale. Osservando coetanei patinati che agghindati di tutto punto si atteggiano ad adulti in televisione ricevendo feedback positivi da chi invece dovrebbe proteggerli, i bambini inconsciamente apprendono che nella vita riceveranno riscontri positivi solo se conquisteranno obiettivi materiali del medesimo tipo e crescono così con la convinzione che esisteranno nella misura in cui otterranno fama, successo, popolarità, denaro e che saranno solo queste condizioni materiali a garantire loro quell'amore di cui invece sono legittimi destinatari, solo in quanto creature viventi. Va da sé che in tale prospettiva, non di certo l'unica esistente, ma quella ad oggi più dilagante, la perdita di valori è la sostanziale conseguenza della perdita della figura pedagogica di riferimento: l'educatore. Quando si parla di valori non si limita l'accezione ad un particolare contesto socio-topografico, ma si estende la connotazione ad un'etica tradizionale universale, trasversale a culture e luoghi geografici, ma appartenente ad una dimensione ancestrale ed archetipica dell'individuo. Ciò che nella Tradizione, per esempio, erano qualità fortemente auspicabili da sviluppare nella persona, come l'onestà, la lealtà, la fedeltà, la non violenza, la cooperazione altruistica, ad oggi, le stesse hanno assunto quasi connotazione negativa e vengono viste come manifestazioni di debolezza, di mancanza di astuzia o furbizia, che possono minare il benessere e l'affermazione individuale a scapito degli interessi del singolo che, competitivamente ed egoisticamente, deve cercare di garantirsi. La mentalità del self made man non è che manifestazione di quell'individualismo fortemente competitivo che Hobbes, ispirato da Plauto, aveva dal sedicesimo secolo prefigurato e descritto con l'espressione Homo Homini Lupus(1). Persino la castità ed il pudore, qualità che difendono la dignità ed impreziosiscono la persona e le relazioni che ella porta avanti, sono state soppiantate da una sessualità a buon mercato, banalizzata e privata di qualsiasi connotazione sentimentale genuina, facendo degenerare le relazioni in una mera ricerca di gratificazione sensoriale, a partire da un'età dei protagonisti, sempre più bassa(2). La sessualità è tuttavia solo la strada più immediata per raggiungere ciò che viene fraudolentemente dipinto come “felicità”, che altro non è che eccitazione sensoriale. Il benessere porta al consumismo, l'economia consumistica si sorregge grazie all'induzione dei falsi bisogni e in quest'ottica l'eccesso viene vissuto come condicio sine qua non per la “normalità” esistenziale. Alcune necessità vengono presentate e subdolamente indotte con così tanta insistenza, con così tanta frequenza, da non essere più percepite con stupore o vissute come eccezionali, ma sperimentate come “normali”. “Normale” è essere atletici ed avere una bella presenza come tutti i brillanti protagonisti di pellicole e serie televisive, “normale” è (s)vestirsi con abiti di marca, “normale” è ricercare un tenore di vita impensabile per chi conduce una professione qualsiasi, “normale” è ricercare una popolarità riservata a idoli dello sport o dello spettacolo, “normale” è non avere ideali altri che non siano quelli falsamente propinati e ai quali illusoriamente si attribuisce la chiave per la felicità; contrariamente al sano principio, cui un grande Maestro quale Shrila Prabhupada ci ha introdotto, del “Simple living, high thinking” (lett. Vita semplice, pensiero elevato). Così, il fresco entusiasmo per esempio per il carosello in televisione, oggi non è sperimentabile nemmeno con una programmazione non stop dei più svariati cartoni animati che invade innumerevoli reti televisive a qualsiasi orario e, se andiamo ancora prima nella storia, la gioia per un pasto completo nel dopoguerra, oggi non si ha nemmeno nuotando nello spreco. La cultura dell'eccesso porta alla banalizzazione, intesa come appiattimento sia di ciò che è positivo, vedi esempi sopra, sia di ciò che è negativo: lo scalpore che per esempio faceva una caviglia scoperta negli anni '30 o '40, ad oggi non è pari nemmeno a quello che suscita una velina seminuda ad orario pasti in TV; di fatto, se si educa alla banalità, si vive la banalità. Tale meccanismo distorto che porta dall'eccesso all'appiattimento e dall'appiattimento all'eccesso ancora più marcato e così via, è plausibile che sia la causa di molte delle forme di disagio giovanile, che vanno dall'abuso di sostanze stupefacenti al vandalismo e alla violenza gratuita. Se non vi è una persona ad educare, infatti, è logica conseguenza che la cultura trasmessa sia spersonalizzata, spoglia di un'identità individuale e anche collettiva, e l'eccitazione artificiale sembri illusoriamente l'unica risposta per “sentirsi” quantomeno vivi. In una prospettiva di questo tipo è quanto mai necessaria la presenza di figure che testimonino altro, con il proprio esempio, con la propria vita, che si facciano carico di aprire la strada a risposte diverse dal trend imperante, che conducano alla ricerca della felicità vera, sinonimo della ricerca dell'individualità originaria. Vacue parole non servono a tal proposito, poiché ciò di cui c'è necessità sono volti illuminati, radianti di consapevolezza; ecco che la responsabilità dell'educatore non è confinata alla “predica”, ma all'espressione stessa dell'insegnamento proposto.
(1) Lett. “L'uomo è lupo per l'uomo”.
(2) Paolo Crepet, a tal proposito, riporta in una raccolta di sue pubblicazioni (La gioia di educare, Einaudi Edizioni, pag. 17) i dati di uno studio americano di pediatria secondo il quale l'inizio dello sviluppo sessuale è sempre più precoce e nelle bambine può stimarsi in media attorno ai 9/10 anni; ciò indicativo dell'accelerazione dei processi maturativi tipica della nostra società attuale.
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