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Educazione siberiana

Creato il 07 marzo 2013 da Molipier @pier78

Educazione siberiana

Educazione siberiana

 

TRAMA DEL FILM EDUCAZIONE SIBERIANA:
“L’educazione siberiana” è uno strano tipo di “educazione”. E’ un’educazione criminale, ma con

precise e, a volte sorprendentemente condivisibili, regole d’onore. La storia si svolge in una regione

del sud della Russia e abbraccia un arco di tempo che va dal 1985 al 1995. In quegli anni avviene

uno dei più importanti cambiamenti della nostra storia contemporanea: la caduta del muro di

Berlino e la conseguente sparizione dell’Unione Sovietica con tutto quello che questo evento ha

poi comportato nei rapporti economici e sociali dell’intero pianeta. Ispirato all’omonimo romanzo

di Nicolai Lilin (edito da Einaudi), in cui l’ autore racconta la sua infanzia e la sua adolescenza

all’interno di una comunità di “Criminali Onesti” siberiani, così come loro stessi amano definirsi,

il film racconta la storia di ragazzi che passano dall’infanzia all’adolescenza, e della comunità

in cui sono cresciuti, rappresentando, attraverso un microcosmo molto particolare, una storia

universale che, al di là delle implicazioni sociali, acquista un significato metaforico che riguarda

tutti noi.

USCITA CINEMA: 28/02/2013
GENERE: Drammatico
REGIA: Gabriele Salvatores
SCENEGGIATURA: Stefano Rulli, Sandro Petraglia, Gabriele Salvatores
ATTORI:
John Malkovich, Arnas Fedaravicius, Vilius Tumalavicius, Eleanor Tomlinson, Peter Stormare

SOGGETTO:
Dal romanzo omonimo di Nicolai Lilin (Ed. Einaudi)

CRITICA:
Gabriele Salvatores cambia nuovamente abito cinematografico, adatta l’omonimo romanzo diNicolai Lilin e guarda a  by CouponDropDown"> by CouponDropDown"> by CouponDropDown"> by CouponDropDown">modelli dritto a modelli che ambiscono, legittimamente, alla formazionedi un cinema di genere che abbia un respiro sovranazionale. Nel farlo, e con il supporto dispecialisti come Rulli & Petraglia, sottrae alla storia originale ogni ruvidezza e conflittualità,ripiegando verso terreni intimi che suonano come un aggrapparsi a sé stesso. E manca così cosìl’occasione di perdersi, di sporcarsi, di contaminarsi. Di farsi trascinare via da una storia e daun’emozione.RECENSIONE:

È un po’ il trasformista del cinema italiano, Gabriele Salvatores.
Uno dei pochi che persino (o forse proprio) con un Oscar in tasca ha cambiato spesso e volentieri

d’abito il suo cinema, confrontandosi con generi e stili diversi, abbracciando con la medesima

imperturbabilità successi e insuccessi, le scivolate e le conquiste.
Ma sotto il vestito, il regista milanese è rimasto sempre lui, fedele a sé stesso e alle sue ossessioni,

essenziale e quasi monacale nella sua dedizione.
Allora ecco che persino in territori geograficamente e narrativamente inesplorati, per lui,

Salvatores si aggrappa a sé stesso: mancando però così l’occasione di perdersi, di sporcarsi,

di contaminarsi. Di farsi trascinare via da una storia e da un’emozione.

Educazione siberiana sta al suo omologo letterario come un cane abituato all’uomo sta ad un lupo

selvaggio. È racconto addomesticato, privato delle sue asperità, del suo carattere più difficile,

adattato alle esigenze del suo padrone.
Grazie anche al contributo di due esperti del settore come Rulli e Petraglia, Salvatores ha

guardato dritto a modelli che ambiscono, legittimamente, alla formazione di un cinema di genere

che abbia un respiro sovranazionale, dai Romanzi criminali a quelli di una strage: e in quella

confezione – depurata il più possibile da ogni elemento disturbante, come lo stile degli sceneggiatori

richiede – ha inserito una storia d’amicizia maschile travagliata e minata dalla perturbanza

femminile che ricorda smaccatamente quella di Turnè ma anche  by CouponDropDown"> by CouponDropDown"> by CouponDropDown"> by CouponDropDown">dettagli e sfumature di tantissimo

altro suo cinema; ma anche le difficili maturazioni di Io non ho pauraCome Dio comanda.

Tutto lecito, tutto possibile, tutto persino declinato con rigorosa correttezza. Fin troppo.
Perché l’imperturbabile Salvatores, il regista che parla con soavità quasi buddista e che pare

costantemente proiettato verso la ricerca di una serena atarassia, pare aver infuso quello stesso

atteggiamento al suo film.
Levigato ed elegante, Educazione siberiana pare fresco di bucato e reduce da otto ore di sonno

rigenerante anche quando esplodono le risse e guizzano le lame, si guerreggia nel Caucaso,

quando muore un compagno e quando antichi codici d’onore vengono infranti, amicizie spezzate,

vendette compiute.

Persino nell’unico momento in cui s’abbandona, e si concede un giro di giostra e una canzone di

Bowie,Salvatores appare trattenuto; nostalgico rispetto a quel che non è più, e non spinto

verso la conquista di un futuro.
Quel futuro che appare incerto e misterioso, quello cui va incontro il protagonista Kolima,

condannato alla solitudine, alla ricerca utopica della ricomposizione di qualcosa che, insieme,

sano, non tornerà mai.

Forse allora questa siberiana di Salvatores è per lui l’unica educazione possibile al giorno

d’oggi: l’educazione al dolore, alla solitudine e compiere passi incerti e solitari verso un domani

che non vediamo e non possiamo prevedere.

 

È un po’ il trasformista del cinema italiano, Gabriele Salvatores.
Uno dei pochi che persino (o forse proprio) con un Oscar in tasca ha cambiato spesso e volentieri

d’abito il suo cinema, confrontandosi con generi e stili diversi, abbracciando con la medesima

imperturbabilità successi e insuccessi, le scivolate e le conquiste.
Ma sotto il vestito, il regista milanese è rimasto sempre lui, fedele a sé stesso e alle sue ossessioni,

essenziale e quasi monacale nella sua dedizione.
Allora ecco che persino in territori geograficamente e narrativamente inesplorati, per lui,

Salvatores si aggrappa a sé stesso: mancando però così l’occasione di perdersi, di sporcarsi,

di contaminarsi. Di farsi trascinare via da una storia e da un’emozione.

Educazione siberiana sta al suo omologo letterario come un cane abituato all’uomo sta ad un

lupo selvaggio. È racconto addomesticato, privato delle sue asperità, del suo carattere più difficile,

adattato alle esigenze del suo padrone.
Grazie anche al contributo di due esperti del settore come Rulli e Petraglia, Salvatores ha guardato

dritto a modelli che ambiscono, legittimamente, alla formazione di un cinema di genere che

abbia un respiro sovranazionale, dai Romanzi criminali a quelli di una strage: e in quella

confezione – depurata il più possibile da ogni elemento disturbante, come lo stile degli sceneggiatori

richiede – ha inserito una storia d’amicizia maschile travagliata e minata dalla perturbanza

femminile che ricorda smaccatamente quella di Turnè ma anche  by CouponDropDown"> by CouponDropDown"> by CouponDropDown"> by CouponDropDown">dettagli e sfumature di tantissimo

altro suo cinema; ma anche le difficili maturazioni di Io non ho pauraCome Dio comanda.

Tutto lecito, tutto possibile, tutto persino declinato con rigorosa correttezza. Fin troppo.
Perché l’imperturbabile Salvatores, il regista che parla con soavità quasi buddista e che pare

costantemente proiettato verso la ricerca di una serena atarassia, pare aver infuso quello stesso

atteggiamento al suo film.
Levigato ed elegante, Educazione siberiana pare fresco di bucato e reduce da otto ore di sonno

rigenerante anche quando esplodono le risse e guizzano le lame, si guerreggia nel Caucaso,

quando muore un compagno e quando antichi codici d’onore vengono infranti, amicizie spezzate,

vendette compiute.

Persino nell’unico momento in cui s’abbandona, e si concede un giro di giostra e una canzone di

Bowie,Salvatores appare trattenuto; nostalgico rispetto a quel che non è più, e non spinto

verso la conquista di un futuro.
Quel futuro che appare incerto e misterioso, quello cui va incontro il protagonista Kolima,

condannato alla solitudine, alla ricerca utopica della ricomposizione di qualcosa che, insieme,

sano, non tornerà mai.

Forse allora questa siberiana di Salvatores è per lui l’unica educazione possibile al giorno d’oggi:

l’educazione al dolore, alla solitudine e compiere passi incerti e solitari verso un domani che non

vediamo e non possiamo prevedere.

 


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