Cristian Sciacca 23 aprile 2013
In una stagione in cui diversi autori nostrani si sono cimentati in produzioni internazionali (Castellitto con Venuto al mondo e Tornatore con La migliore offerta), Gabriele Salvatores sceglie di ripartire con un romanzo del 2009 del moldavo Nicolai Lilin: all’epoca della sua uscita Educazione siberiana venne etichettato come il Gomorra dell’Est e ottenne un discreto successo editoriale, ripetutosi recentemente grazie alla campagna pubblicitaria della sua trasposizione su grande schermo. La storia è quella di Kolima, cresciuto in Transnistria, territorio ostile e distopico, dove ha base il cosiddetto “Clan dei Siberiani”, di cui nonno Kuzja, attraverso le sue parabole, fornisce un decalogo in cui si parla (come per ogni codice criminale che si rispetti) di valori, onore, di bene e male, di chi considerare amici o nemici. Quando l’anziano Kuzja parla (interpretato da John Malkovich), i bambini ascoltano la parola di Dio. Un dio dell’odio e soprattutto della guerra: si nasce, si cresce e si vive in perenne conflitto, poco importa se con le istituzioni locali (la polizia), con gli amici o con sé stessi. Crescendo, si possono anche intraprendere strade diverse: Kolima, dopo essere stato in galera, diventa soldato, mentre il suo amico Gagarin rompe con la sua educazione e le sue regole e aderisce all’attività tabù del clan, il traffico di droga. È su questa svolta, oltre che per lo stupro di una ragazza disturbata (a cui Kolima era affezionato) da parte di Gagarin, che si gioca la parte conclusiva del film, in cui i due amici si rincontrano.
Diciamolo: Salvatores è un regista di qualità, Educazione siberiana ne è una conferma. Chi ha letto il libro farebbe fatica ad immaginare una trasposizione migliore: è tutto ben fatto, dalla colonna sonora (con echi di Kusturica e Bregović) alla scenografia, dal montaggio alla regia stessa (in perfetto equilibrio fra ritmo sostenuto e momenti di riflessione) fino alla scelta del cast, con i veterani Malkovich e Peter Stormare eclissati da giovani attori in buona parte lituani (come Arnas Fedaravičius e Vilius Tumalavičius, nel film rispettivamente Kolima e Gagarin) e dalla ventenne inglese Eleanor Tomlinson nel ruolo di Xenja, interpreti tutti ben calati nella parte. Poi c’è l’altra faccia della medaglia: Educazione siberiana non riesce innanzitutto a costruirsi un motivo d’essere convincente. Non ha la consistenza da storia criminale (evitiamo l’abusata espressione gangster movie) nonostante ricordi nettamente C’era una volta in America, non solo per il rapporto Kolima / Noodles – Gagarin / Max ma anche per la struttura narrativa basata sui flashback. Da questo punto di vista, specificando che il confronto con l’epopea leoniana sussiste solo per forma e contenuti e non per lo spessore, la pellicola di Salvatores sa terribilmente di già visto. L’unico elemento di novità, se così vogliamo dire, rappresentato dai tatuaggi come codice criminale e come storia della persona scritta sul corpo, viene trattato in maniera piuttosto superficiale.
L’opera d’altro canto non può nemmeno essere considerata come un romanzo di formazione da ricordare: i suoi personaggi sono poco approfonditi, si muovono e parlano in base a slogan predefiniti, tanto che alla fine quelli che colpiscono maggiormente risultano essere i disadattati Gagarin e Xenja. Ed è per via di questi motivi (e non per imperizia formale o tecnica) che Educazione siberiana non riesce né a sconvolgere (ma non si pretendeva tanto), né a coinvolgere: il difetto peggiore è proprio questo ed è un peccato se si ripensa all’ultima scena, allo sguardo che i piccoli Kolima e Gagarin si scambiano mentre ascoltano nonno Kuzja, un epilogo che avrebbe meritato una storia più solida e accattivante. Non è il caso di accanirsi contro Salvatores e la sua incapacità di invertire la rotta che lo vede in una fase calante sempre più lunga, perchè tecnicamente al film non si può rimproverare nulla. Piuttosto sarebbe il caso di interrogarsi sulla scelta di un soggetto ormai abusato e che non garantisce importanti spunti né narrativi né di riflessione. Uno sforzo encomiabile, che però non basta.
Le fotografie inserite nell’articolo sono di Claudio Iannone
In copertina: Vilius Tumalavičius e Arnas Fedaravičius