
Il libro è di medio formato e composto da trentadue brevi testi, più una premessa (per un totale di 89 pagine), che discutono di trenta quadri, fedelmente riprodotti, in alcuni casi anche evidenziati nei particolari, e, in generale, nelle caratteristiche formali dell'intera opera. Mark Strand è molto analitico nell'approccio ai quadri e capace di mostrarne anche più di ciò che di solito accade nei cataloghi più diffusi (io a casa ho quello della Skira). In più, sorprende la capacità di sintesi del poeta nello sguardo di insieme gettato sul pittore, al punto che in ogni "lettura" dei quadri si può ricavare l'impegno personale di Strand nell'approccio a Hopper. Determinante, però, mi sembra il modo in cui lo scrittore, nella premessa, individua uno spazio virtuale, in cui predominano l'influsso e la sovrabbondanza del sentimento (p. 3). Questo spazio virtuale è indagato con discrezione, sia nei riguardi di Hopper, sia soprattutto nel modo di avanzare ipotesi sul vissuto emozionale delle figure umane che compaiono nei quadri (ipotesi, sia detto subito, che non sempre mi appaiono condivisibili, ma non cessano per questo mi appaiono suggestive e illuminanti).
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Quest'alternanza di dentro e fuori, l'uno e l'altro forieri di ansia e sofferenza, sono due aspetti dell'insistenza del pittore sul senso della vista (come ironicamente ci fa notare Strand in The Circle Theatre, 1936): sia per gli sguardi delle persone ritratte, tutte quasi sempre sole o comunque assorte nei loro pensieri solitari, con gli sguardi che non si incontrano mai e che sfuggono anche quando puntano al ritrattista (e penso, in particolare, a Motel dell'ovest, Western Motel, 1957); sia per il ruolo di solitudine a cui costringono lo spettatore (ancora Nighthawks, dove, dell'assenza di intesa e del marciapiedi deserto, Strand dice che non c'è nessuno nel quadro che condivida quello che vediamo noi, p. 9). Parimenti, è significativo il carattere epifanico della luce in quadri come Cittadina mineraria in Pennsylvania (Pennsylvania Cowl Town, 1947) o in Mattino a Cape Cod (Cape Cod Morning, 1950) o ancora nel più tardo Persone al sole (People in the Sun, 1960), ma un'epifania che ci esclude, essendo la fonte di luce fuori dal quadro.
Eppure c'è ancora qualcosa d'altro, in queste brevi digressioni di Mark Strand, ed è l'aspetto più macroscopico: c'è quella modernità strepitosa che tanto ci attira nei quadri di Hopper: la modernità che si esprime nell'ambiente urbano, con il suo arredo lindo, essenziale, pronto a incarnarci, ospitale finché si vuole, eppure così incapace di darci la felicità. L'oscura barriera dei boschi, l'arcano silenzio della natura sono solo un contraltare - in termini di vagabondaggio, e non solo - di una città percorsa o, direi io, invasa dagli spettri delle persone che vi appaiono quasi all'improvviso. Aggiungerei che è come se il momento del ritratto è anche il frangente nel quale la luce si incarna nelle cose, è un attimo, non una fotografia.
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Strand, che segue un ordine tutto suo - non sempre intellegibile - nella lettura dei quadri, sottolinea appunto la natura pittorica dell'opera di Hopper: nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, il pittore - e il poeta con lui - ha forse imparato molto dalle arti delle nuove tecnologie che si diffondono, ma rimane intrinsecamente un pittore: quelli che in fotografia sarebbero "errori" di inquadratura, prospettive discutibili, diventano qui un messaggio dell'autore, un modo per superare la stretta dimensione dell'immagine, rimanendovi però avvinghiati con tutta la forza di cui siamo capaci. I quadri di Edward Hopper rifuggono così alle campiture uniche di molti illustratori a lui contemporanei, alle tinte smaltate e ai facili contrasti che la pubblicità della società di massa esige, per sgranarsi un po' e fare anche dei colori uno strumento linguistico di straordinaria forza personale. Non c'è nulla, nel pittore statunitense, che ne faccia un reporter ante litteram, e forse neanche un vero narratore: ma un poeta sì, come Strand, e un poeta di illuminazioni e di spasmi.