Morsi, i militari e una proposta di soluzione alla crisi egiziana
I firmatari di questa dichiarazione intrattengono stretti rapporti quotidiani con la società egiziana e il Medio Oriente per motivi di studio e lavoro. In presenza di una copertura mediatica sugli eventi egiziani che spesso tralascia l’analisi delle cause che hanno condotto alla crisi attuale e non dà conto della sua grande complessità, e poiché le scelte politiche internazionali, che influenzano la vita di milioni di persone, dipendono anche da una corretta informazione, sentiamo la responsabilità, in base alla nostra esperienza e conoscenza approfondita della situazione, di offrire al pubblico italiano un quadro più completo della crisi in Egitto e un possibile percorso di soluzione.
1- Gli antecedenti: il governo autoritario di Morsi
Mohammed Morsi è eletto Presidente il 24 giugno 2012 con una maggioranza del 51,7% (circa 13 milioni di voti) e un margine di vittoria del 3,4% (circa 900.000 voti) sullo sfidante Ahmed Shafiq. Questa vittoria si deve al sostegno di una coalizione di forze non islamiste, dopo che Morsi accetta alcune richieste, come una nuova Assemblea Costituente.
Il 22 novembre 2012, invece di riformare la Costituente, Morsi emana un decreto costituzionale con il quale sottrae le decisioni presidenziali al controllo giudiziario e immunizza Costituente e Camera Alta del Parlamento dallo scioglimento. La popolazione reagisce con proteste di massa, inascoltate, mentre i sostenitori di Morsi danno inizio all’assedio della Corte Costituzionale per impedirle di deliberare. Ventun consiglieri presidenziali danno le dimissioni. Il 30 novembre 2012, nell’arco di una sola notte, la Costituente a maggioranza islamista vota i 234 articoli della bozza costituzionale che rafforza il ruolo della sharia e restringe i diritti civili di donne e minoranze religiose. Il 1 dicembre 2012, Morsi indice il referendum costituzionale per il 15 dicembre, lasciando al paese (con circa il 40% di analfabeti) due sole settimane per discutere la bozza costituzionale. Le proteste si spostano al Palazzo Presidenziale, dove il 5 dicembre 2012 i manifestanti sono attaccati dai sostenitori di Morsi, che catturano e torturano per diverse ore alcuni dimostranti. Alcuni sono uccisi. Il 15 e 22 dicembre 2012 si tiene il referendum che approva la bozza costituzionale con il 63,8% dei votanti e un’affluenza di appena il 32,9%, senza adeguata supervisione giudiziaria a causa del vasto boicottaggio dei giudici.
Intanto, aumentano i casi di persecuzione giudiziaria (con l’accusa d’insulto al presidente) nei confronti di oppositori politici, attivisti, giornalisti, presentatori televisivi, comici (come Bassem Youssef). I canali televisivi islamisti intensificano le aggressioni verbali a oppositori e minoranze (copti, sciiti, donne), sedimentando un pericoloso discorso settario mai condannato dal governo e dalle leadership islamiste finché, il 24 giugno 2013, quattro egiziani sciiti sono linciati dalla folla in un villaggio a sud del Cairo. Un rapporto del Nadeem Center for Rehabilitation of Torture Victims, il 26 giugno 2013, documenta che sotto il governo Morsi sono avvenuti 359 casi di tortura da parte delle forze di polizia, la cui riforma non è mai stata intrapresa. Di fronte alla sordità della Presidenza, al chiudersi di ogni via istituzionale per l’opposizione e in assenza di un meccanismo costituzionale di impeachment, il movimento Tamarrod avvia, il 1 maggio 2013, una raccolta di firme per chiedere elezioni anticipate, raggiungendo 22 milioni di firme, nove milioni in più rispetto ai voti di Morsi alle presidenziali. Il 30 giugno, milioni di egiziani in tutto il Paese scendono in piazza per sostenere la petizione, ma Morsi non accetta alcun compromesso. A questo punto, il 3 luglio 2013, con l’ampio sostegno della popolazione, il generale al-Sisi interviene per destituire Morsi.
2 – La situazione attuale
In Egitto, lo scontro in atto non è tra militari e islamisti, bensì tra una minoranza che appoggia l’ex Presidente Morsi e la maggioranza del popolo egiziano, vero motore della rivolta del 30 giugno contro il governo islamista. L’esercito non ha potere assoluto. Adottando la roadmap proposta da Tamarrod, ha passato il potere legislativo al Presidente ad interim Adly Mansour, già a capo della Corte Costituzionale, e quello esecutivo a un governo di transizione che dovrà condurre il paese a nuove elezioni. La roadmap è stata sottoscritta da un’ampia coalizione rappresentata da al-Azhar (massima autorità dell’islam sunnita), le tre chiese copte (ortodossa, cattolica ed evangelica), il partito salafita al-Nur, il Fronte di Salvezza Nazionale di Mohamed el-Baradei e il movimento Tamarrod. I militari gestiscono la sicurezza nazionale coordinandosi con un Consiglio di Sicurezza Nazionale, del quale fanno parte anche il Presidente ad interim, il Primo Ministro e i Ministri degli Interni, degli Esteri e della Difesa.I Fratelli Musulmani respingono questa roadmap, insistendo sulla reintegrazione di Morsi e della Costituzione del dicembre 2012, cioè su un completo ritorno alla situazione antecedente al 30 giugno. L’esercito ha il sostegno popolare, perché in seguito a passati episodi di violenza da parte dei pro-Morsi (ad es. il 5 dicembre 2012, cfr. punto 1) e alle minacce fisiche ai manifestanti prima del 30 giugno, gli egiziani non hanno avuto altra via che ricorrere alla protezione dei militari.
3 – Chi commette le violenze
Riconoscendo l’uso sproporzionato della violenza da parte di esercito e polizia nel porre fine ai sit-in dei pro-Morsi (con almeno 800 morti), riteniamo doveroso sottolineare anche le violenze degli islamisti, che hanno terrorizzato i civili di molti quartieri residenziali, attaccato a tappeto chiese e strutture cristiane, aggredito copti, assaltato stazioni di polizia e ucciso diversi ufficiali. Le testimonianze in merito sono diffuse e documentate. Il 15 agosto 2013, l’Egyptian Initiative for Personal Rights, esecrando le violenze delle forze di sicurezza, ha al contempo condannato quelle dei pro- Morsi come “atti terroristici”. Le comunità cristiane sono particolarmente prese di mira. Soltanto nella giornata di mercoledì 14 agosto sono state devastate 37 chiese, 5 scuole, 3 società bibliche, 4 uffici di istituti cristiani, e decine di abitazioni e attività commerciali appartenenti a cristiani su tutto il territorio. Il 19 agosto gli attacchi settari hanno raggiunto in totale il numero di 96.
Le violenze dei sostenitori di Morsi sono cominciate con i loro sit-in (iniziati due giorni prima delle manifestazioni anti-Morsi del 30 giugno) e prima degli sgomberi del 14 agosto. Il 5 luglio, ad esempio, un gruppo di pro-Morsi armati ha assalito il quartiere di El-Manial, al Cairo, uccidendo alcuni residenti. Il 2 agosto, un rapporto di Amnesty International ha documentato vari episodi di tortura all’interno dei sit-in dei pro-Morsi. Dopo lo sgombero, sono stati rinvenuti diversi corpi con segni di torture. Numerosi anche gli attacchi a giornalisti egiziani e attivisti per i diritti umani, inviati sul posto per seguire la situazione. I bambini sono stati strumentalizzati a fini propagandistici, condotti nelle piazze vestiti del sudario nel quale si avvolgono i defunti per la sepoltura.
4 – Una soluzione per uscire dalla spirale di violenza
Per uscire da questa crisi, riteniamo che sia indispensabile procedere secondo le seguenti fasi:
- Cessazione immediata di ogni violenza e ogni protesta da parte dei sostenitori di Morsi, con l’accettazione della roadmap adottata dal governo di transizione.
- Offerta di una safe-exit, da parte di governo ed esercito, ai Fratelli Musulmani, ai quali deve anche essere garantita la partecipazione alle elezioni e la libera organizzazione della loro campagna elettorale.
- Invio di osservatori internazionali (da Stati Uniti, Unione Europea, Lega Araba, Russia e Cina) per monitorare l’intero processo elettorale, per garantire che i risultati riflettano pienamente la volontà degli egiziani.
- Istituzione di una Commissione investigativa internazionale che accerti le responsabilità individuali nelle violenze, sia da parte delle forze di sicurezza, sia da parte degli islamisti, in modo che non restino impunite.
Invitiamo arabisti, ricercatori, traduttori, studiosi di islam, attivisti, giornalisti, analisti politici del Medio Oriente, ecc., che operano in Italia e si riconoscono in questa dichiarazione, a firmarla inviando una e-mail all’indirizzo [email protected], esprimendo il consenso all’aggiunta del proprio nome alla lista (indicare anche professione e luogo di residenza). Una volta completata la raccolta firme, questa dichiarazione sarà presentata ai mass media e inviata al Governo italiano.
Agosto 2013
FIRMATARI
Wael Farouq, docente di lingua araba all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.
Giovanni Giacalone, sociologo e islamologo, Milano.
Elisa Ferrero, arabista e traduttrice, Torino.
Fonte: Diritto di Critica