Dall’inizio dell’estate l’Egitto sta affrontando la peggiore crisi energetica degli ultimi anni, con interruzioni di corrente ormai all’ordine del giorno. I black out programmati hanno registrato tuttavia un’impennata dall’inizio di questa estate, attestandosi su una media di cinque ore al giorno. Secondo il Ministro dell’Energia Mohamed Shaker, l’Egitto abbisogna di almeno 10.000 megawatt di elettricità, che saranno gradualmente coperti entro novembre attraverso l’attivazione di quattro nuove centrali e il ripristino di altre tuttora in manutenzione, ma intanto le interruzioni aumentano e tutto ciò che il governo ha fatto finora è stato invitare la popolazione a moderare i consumi.
La produzione energetica in declino
Per capire come mai l’Egitto soffra di carenze energetiche dobbiamo fare un passo indietro. Innanzitutto, la produzione petrolifera egiziana ha riscontrato un rapido declino dal 1995 al 2007, tanto che il Paese è diventato importatore netto di greggio nel 2010. Secondo un documento di PNB Paribas, l’aumento demografico (in media dell’8% annuo) il deperimento dei pozzi dell’area del golfo di Suez, solo in parte compensato da nuove scoperte nel deserto occidentale e nell’Alto Egitto, e la mancanza di investimenti in ricerca e sviluppo di nuovi giacimenti hanno contribuito a questa discesa. Oggi la produzione media annuale si attesta intorno ai 735 milioni di barili (stime BP), che pongono l’Egitto al quarto posto in Africa, ma che non bastano a garantirgli l’autosufficienza energetica. Il Cairo vanta anche il più grande settore della raffinazione nel continente, ma anche questo insufficiente a coprire interamente la domanda interna.
Il settore del gas è invece in piena espansione: dai 21 miliardi di metri cubi del 2000 si è passati ai 62,7 del 2009, ma non gode comunque di buone prospettive. Il consumo domestico ha visto un aumento della domanda del 6%, contraendo le esportazioni dai 18,3 miliardi di metri cubi del 2009 ai 15,2 del 2010. L’Egitto ha cominciato ad esportare gas nel 2000 estraendolo dai giacimenti del Delta del Nilo e del Golfo di Suez al ritmo di 450 miliardi di piedi cubi su un totale di 600 prodotti, ma già nel 2008 i consumi interni imponevano di ridurre i volumi esportati per concentrarsi sul mercato nazionale. Il Paese ha bisogno di esportare oro blu perché la rendita gasifera copre il costo delle importazioni di petrolio necessarie ai fabbisogni di famiglie e industrie, ma il gas restante non basta a far fronte alle esigenze del mercato interno. Ridurre una voce danneggerebbe l’altra: è il gatto che si morde la coda. Il risultato sono i black out continui nelle grandi città, soprattutto in estate, che provocano rabbia e proteste tra la popolazione.
La questione Israele
Oltre all’impossibilità di rinunciare agli introiti delle esportazioni di gas, va detto che questo che queste sono motivo di forti polemiche perché la gran parte dell’oro blu venduto sul mercato estero prende la direzione di Israele, peraltro ad un prezzo superscontato. Oggi l’Egitto fornisce ad Israele il 43% del gas totale consumato dallo Stato ebraico e quest’ultimo produce il 43% dell’elettricità totale con il gas egiziano. Il contratto, concluso nel 2005 per un valore di 2,5 miliardi di dollari, prevede la vendita annuale per 15 anni di 1,7 miliardi di metri cubi di gas naturale alla compagnia elettrica israeliana Cei da parte della società che gestiva le forniture, la East Mediterranean Gas (EMG), società a partecipazione israelo-egiziana che fino al 2011 vedeva collaborare al suo interno, tra gli altri, l’ex 007 del Cairo Hussein Salem, e Yossi Maiman, ex direttore del Mossad. Le forniture sono iniziate ufficialmente il 7 maggio 2008, ma l’operazione israeliana Piombo Fuso alla fine dello stesso anno e la rivoluzione di Piazza Tahrir nel 2011 hanno sollevato un coro di proteste contro l’accordo. Non solo perché sottraeva gas al Paese in deficit energetico, ma soprattutto per il prezzo fuori mercato che il compratore pagava alla società EMG. Lo schema era piuttosto semplice: EMG acquistava dall’Egitto 1000 metri cubi di gas naturale a 1,5 dollari, introducendolo poi nel mercato israeliano a 4 dollari, più o meno il prezzo (3,8 dollari) che lo stesso Egitto pagava per importare gnl dal Qatar. La differenza serviva ad ungere una filiera di corruttele dentro e fuori la società, e a Mubarak e soci la situazione andava bene così, benché tutta la vicenda avesse aperto la strada a vivaci rimostranze, con risvolti anche sul piano giudiziario.
Il 18 novembre 2008 la sezione amministrativa del Consiglio di Stato ha ordinato la sospensione della vendita di gas al vicino Stato ebraico, accogliendo il ricorso dell’avvocato Ibrahim Yousri, secondo il quale l’accordo avrebbe fatto perdere all’Egitto circa 9 milioni di dollari al giorno in termini di mancati guadagni, ma il governo Mubarak si è rifiutato di ottemperare alla sentenza. Alcuni mesi dopo l’Alta Corte del Cairo, pur ribadendo la legittimità di esportare gas ad Israele come agli altri Paesi della regione, ha precisato che occorre prima verificare le necessità del mercato interno. Questione risolta? Per niente. Con la destituzione dell’anziano presidente e il caos politico che ne è seguito, il gasdotto attraverso il quale le forniture vengono convogliate è stato fatto oggetto di ripetuti attentati – una decina nel solo 2011 – che hanno lasciato Israele (e in parte la Giordania) a secco per diverse settimane.
Nel 2012, con l’avvento dei Fratelli Musulmani, l’Egitto ha annullato l’accordo, sospendendo le forniture agli israeliani e portando alla sbarra tanto il già citato Salem quanto Sameh Fahmi – ministro del Petrolio tra il 1999 e il 2011 – entrambi condannati a 15 anni di carcere. Ma in seguito al nuovo colpo di Stato nel 2013, che ha bandito la Fratellanza riconsegnando le redini del potere ai militari, le condanne sono state bloccate in attesa di un nuovo processo.
Arrivando ai nostri giorni, in questi primi mesi di presidenza Sisi sono state intavolate le trattative per nuovo accordo (fortemente sponsorizzato dagli Stati Uniti) per trasportare il gas naturale israeliano agli stabilimenti per la liquefazione in Egitto. Israele ha infatti scoperto giacimenti di gas naturale che potrebbero elevarlo a potenziale esportatore sia verso l’Europa che lo stesso Egitto già nei prossimi cinque anni. Un’intesa da 60 miliardi di dollari che vede il Cairo nei panni del compratore, rovesciando i ruoli sin qui tenuti.
Le colpe del governo
La crisi energetica in Egitto è frutto della voracità, del pressapochismo e della scarsa lungimiranza delle classi dirigenti che finora si sono succedute al potere. Una possibile via d’uscita potrebbe venire dall’esplorazione dei nuovi giacimenti di gas nel delta del Nilo, che sembra offrire risultati promettenti, ma su questo piano c’è uno spinoso con le compagnie estere. La Primavera Araba l’instabilità politica dei paesi nordafricani hanno di fatto rilanciato l’interesse delle majors per le risorse energetiche egiziane, ma la grave crisi finanziaria dello Stato gli impedisce di effettuare gli investimenti necessari, compresi quelli volti a coprire la sua quota di competenza nei progetti di sviluppo già pianificati e in parte anticipata dalle compagnie stesse. Al punto che, nel settembre 2012, il Cairo aveva già accumulato un debito di circa tre miliardi di dollari con varie società petrolifere straniere. Negli ultimi mesi, in mancanza di tali investimenti, si è registrato un calo tanto nella produzione quanto nell’esportazione di gas naturale.
Benché il governo egiziano abbia annunciato di voler rinegoziare i profitti derivanti dal transito di oro nero attraverso i suoi oleodotti, compensando così le perdite dovute ai prezzi artificialmente bassi durante il regime di Mubarak, oggi sembra non esserci un grande margine di manovra in questo senso. Già nel luglio 2010, British Petroleum e RWE hanno rinegoziato in proprio favore i termini dei contratti esistenti, ottenendo, in cambio della copertura di tutti gli investimenti, il 100% degli idrocarburi estratti nei promettenti campi offshore di Alessandria e del Mediterraneo occidentale, che prenderanno la via del mercato estero lasciando all’Egitto le briciole delle royalties. Il Paese è debole, non può permettersi di mercanteggiare e questo le compagnie lo sanno bene. Tra non molto partirà una competizione serrata a livello internazionale (in lizza anche compagnie cinesi e indiane) per ridare ossigeno (anzi, gas naturale) ad un mercato interno in apnea.
Conclusioni
Secondo numerosi studi, tra cui quello di Adel Tawfiq, esperto nel settore del consumo energetico, il problema principale sono gli sprechi e il governo dovrebbe concentrarsi su questo aspetto. Inoltre, secondo il rapporto esistono innumerevoli fonti di energia che ad oggi non sono sfruttate adeguatamente in Egitto, a cominciare da quelle solari ed eoliche. Il governo indica due possibili vie d’uscita: l’energia nucleare e il ritorno al carbone, ma la prima richiede tempi troppo lunghi, la seconda sarebbe non solo dannosa per l’inquinamento, ma anche poco redditizia dal punto di vista economico e tutte e due sembrano dettate più dai ricchi affari che l’élite del Cairo che da una oculata pianificazione di lungo termine. La verità, come osservatori interni ed esterni ripetono da tempo, è che mancano soluzioni strutturali degne di questo nome.
Per il neo presidente Sisi la questione costituisce un nodo intricatissimo dal cui scioglimento dipende non soltanto la sua popolarità personale, ma la stabilità stessa del suo regime. Come ricorda il quotidiano britannico Guardian, i frequenti black out e la scarsità di carburante sono stati due dei tanti motivi che hanno spinto i manifestanti ad invocare la destituzione del presidente Morsi, solo un anno fa.
* Scritto per The Fielder