La passione di Lia è l'Egitto. Ha vissuto là, là ha lavorato (ha insegnato all'Università), e soprattutto all'Egitto ha consegnato il cuore. Non riesce a far passare tre post senza parlare del Cairo, della sua gente meravigliosa, degli amici che ha lasciato laggiù. Se dovessi fare una diagnosi, direi che soffre di una terribile forma di saudade... ma per un Paese che non è il suo.
Così mi sono detta: voglio intervistare un esperto di Egitto. E siccome sono una blogger non intervisterò l'esperto per professione ma l'esperto per passione, e nessuna è più pasionaria di Lia in fatto di cose egiziane. Le ho chiesto di aiutarci a capire cosa sta succedendo, e soprattutto come vive questo momento il popolo del Cairo.
Ecco cosa mi ha raccontato.
-La nostra percezione delle donne egiziane, è "chiuse in casa col velo". Cosa ti raccontano le tue amiche dall'Egitto? Cosa hanno fatto e cosa fanno le donne in questa rivoluzione?
E' una percezione semplicistica e profondamente sbagliata, anche perché sovrappone due cose - il velo e lo stare chiuse in casa - che non sono affatto sovrapponibili. Quindi, se da una parte è vero che moltissime egiziane, negli anni, hanno deciso di indossare il velo, è anche vero che queste stesse donne studiano, si laureano, lavorano e sono presenti in tutti gli aspetti della vita egiziana. La mia preside di facoltà, quando insegnavo nell'università egiziana, era una donna, portava il velo ed era estremamente autorevole. Questo non vuol dire che le donne, in Egitto come in tanti altri paesi, non debbano lottare ancora molto per i loro diritti. Ma, di sicuro, non sono né schiavizzate né passive come tanti, qui, le dipingono. Detto questo: le foto della massiccia presenza femminile nelle manifestazioni in Egitto stanno facendo il giro della rete. Donne giovani e anziane, cristiane e musulmane, con l'hijab, col velo integrale, coi capelli al vento. Di ogni classe sociale, di ogni appartenenza politica. Donne col megafono e donne che aiutano a ripulire le strade del Cairo, ormai abbandonate dallo Stato e affidate alla cura dei soli cittadini. Ora che l'Egitto è di nuovo collegato alla rete, le immagini e i video fanno giustizia degli stereotipi che, nei giorni scorsi, sono circolati tra i nostri media.
-Poche settimane fa ci raccontavano che cristiani e islamici erano ai ferri corti, al punto di ammazzarsi a vicenda. Qual è la situazione, ora che tutto il popolo è in piazza?
In realtà non era affatto vero che musulmani e cristiani fossero ai ferri corti, con buona pace di coloro che evocano questi scenari. E' vero, invece, che gli attentati contro i cristiani hanno sollevato da subito un'ondata di sdegno fra tutti gli egiziani, senza distinzioni tra musulmani e cristiani. Il Cairo, per settimane, è stato pieno di cartelli col simbolo della croce e della mezzaluna intrecciati, a simbolizzare l'inseparabilità delle due fedi religiose che compongono l'Egitto. Per quanto riguarda il momento attuale, la situazione è complessa: in principio le autorità religiose cristiane avevano chiesto ai loro fedeli di non partecipare alle manifestazioni. Moltissimi hanno disobbedito e sono scesi in piazza contro Mubarak. Piazza Tahrir, in questi giorni, era piena di manifesti sulla fratellanza tra le due religioni, e ci sono foto che ritraggono persino i pope in piazza. L'altra faccia della medaglia, però, è rappresentata dall'appoggio che molti cristiani danno a Mubarak: per i settori più conservatori della popolazione cristiana, Mubarak è colui che ha represso e reso illegale il movimento dei Fratelli Musulmani, e questo spiega l'appoggio di molti di loro al regime.
-Sempre secondo le tue fonti in Egitto, è vero che si tratta di una rivoluzione spontanea? O come sostiene qualche complottista, c'è il sospetto che sia comunque eterodiretta come tante rivoluzioni colorate avvenute negli ultimi anni?
Chi considera eterodiretta questa rivolta non ha seguito, credo, gli ultimi anni della vita politica egiziana. Da una parte, la crisi economica, l'impoverimento sempre più intollerabile della società egiziana, l'aumento dei prezzi, la corruzione e la mancanza di prospettive in cui il paese sembrava affondare. Dall'altra, elementi come l'enorme ruolo di internet nella rinascita politica della gioventù egiziana, l'attivismo dei blogger, autentica élite culturale e punto di riferimento della dissidenza, il Movimento 6 aprile, l'attivismo della società civile, testimoniano da tempo un fermento che il mondo ha scoperto solo oggi. Ti faccio un esempio: già nel 2007, per citare solo un episodio esemplificativo del ruolo politico che internet ha assunto in Egitto, la partecipazione via Twitter agli scioperi dei lavoratori delle fabbriche tessili di Mahalla fu un fenomeno capace di richiamare l'attenzione dei più attenti tra i giornalisti della stampa internazionale, persino in Italia dove siamo generalmente distratti. Certo: nessuno si aspettava che la protesta, di colpo, arrivasse ad assumere la portata che abbiamo visto in questi giorni. Ma l'idea che una sollevazione tanto trasversale, tanto generalizzata e sentita, possa essere il risultato di chissà quale macchinazione straniera è, semplicemente, fantapolitica, e non tiene conto di una realtà che, in questi anni, è stata a portata di click per chiunque la volesse vedere.
-Come mai i manifestanti pro-Mubarak sono saltati fuori solo adesso? Dov'erano prima? Perché sono stati sguinzagliati solo ora?
Oggi, nel momento in cui scrivo, le testimonianze e le prove sulla vera identità di questi manifestanti circolano ovunque. AlJazeera ha mostrato i tesserini della polizia rinvenuti nelle tasche di quelli che sono stati fermati, innumerevoli testimoni raccontano di come sono stati reclutati e quanto sono pagati questi cosiddetti 'sostenitori', scesi in piazza armati contro una folla pacifica tra cui c'erano anziani, bambini, famiglie. Vodafone ha dichiarato di essere stata costretta dal governo a inviare sms di convocazione a tutta la popolazione. Gli stessi Stati Uniti hanno dichiarato che gli attacchi violenti contro i giornalisti in piazza fanno parte di una strategia governativa. Sono strategie dei servizi di sicurezza per soffocare un movimento che è stato pacifico fin dall'inizio: Mubarak, nel suo discorso dell'altra sera, aveva detto chiaramente che l'alternativa al suo governo era il caos. E questa frase era suonata, da subito, come un avvertimento sinistro. I miei amici al Cairo me l'avevano detto un attimo dopo la fine del discorso, che questa frase faceva temere il peggio. Non si sbagliavano.
-Sempre per quanto riguarda questi ultimi, tu e i tuoi amici condividete la mia sensazione che sulla pelle del popolo egiziano stia avvenendo una battaglia campale tra potenze straniere che hanno oggi idee diverse per il governo dell'Egitto?
Quello che secondo me è evidente è che, da quando abbiamo memoria, non c'è un paese arabo i cui destini non dipendano da equilibri e interessi a cui vengono sacrificate le vite di popolazioni intere. Io vedo che, semplicemente, gli arabi non sono padroni del loro destino da troppo tempo. E mi pare che questa rivolta sia anche questo: il tentativo, da parte di un paese la cui popolazione è in maggioranza giovanissima, di riuscire finalmente a scrivere la propria storia in prima persona, di essere autori e non spettatori del proprio destino. D'altra parte, gli interessi contro cui si scontrano sono enormi. Israele non ha forse pubblicamente dichiarato il proprio appoggio a Mubarak fin dal primo istante? La popolazione egiziana, vista da chi difende questi interessi, deve apparire tranquillamente sacrificabile.
-Come andrà a finire? I tuoi amici sono ancora convinti di vincere, oggi, o la disperazione e lo scoraggiamento cominciano ad avere la meglio?
Non lo so. Le cose succedono troppo velocemente, la gente è stremata e, a quanto pare, il regime non teme di usare le tecniche più sporche pur di rimanere saldo al potere. Nonostante questo, la gente sembra resistere. Credo che nessuno, in questo momento, possa prevedere cosa accadrà. Io, te lo confesso, sono pessimista, e tremo al pensiero dell'ondata di repressione che si potrà scatenare se i manifestanti verranno sconfitti. Aspettiamo e, intanto, cerchiamo di essere vicini agli egiziani come possiamo, anche solo testimoniando e diffondendo la loro voce. Credo che abbiano un estremo bisogno di non sentirsi abbandonati dal resto del mondo.