Virtuosismo grafico per un personaggio accattivante
Eisenstein in Messico, presentato a Berlino 65, è l’ultimo film diretto da Peter Greenaway; una vitale e giocosa spirale cinematografica, un omaggio al cineasta sovietico, che può estasiare come lasciare interdetti.
1931. Sergej Ejzenstejn si reca in Messico per realizzare un film che intende celebrare la Rivoluzione del 1911, che sente come la più vicina a quella russa. Giunto a Guanajuato conosce il suo accompagnatore Palomino, un uomo che gli farà scoprire molte cose del Messico e altrettante sulla propria sessualità.
Eisenstein in Messico appare un prodotto superficiale dal punto di vista teorico, quasi un gioco che omaggia l’autore (Sciopero!, La corazzata Potemkin) e il cinema di allora (gli split screen, il bianco e nero) in un turbinio di estetica e stile, che può apparire fine a se stesso eppure contiene la vitalità di Ejzenstejn, la scoperta del suo io (l’omosessualità) e del suo corpo (goffo e scrutato in ogni sua piega). Il cinema di Greenaway diverte e non è mai banale; c’è sempre quella volontà di mostrare e di spiazzare lo spettatore con un montaggio psichedelico (delle attrazioni, giusto per ricordare nuovamente Ejzenstejn) che contiene una linearità personale, mai realmente riconoscibile. E laddove l’azione si sospende comincia a ruotare in modo interminabile con la macchina da presa in un campo sequenza infinito oppure inserisce gag (a sfondo sessuale o politico).
Greenaway racconta Ejzenstejn, la sua fragilità, la sua eccentrica visione del mondo e si sofferma (quasi in modo disturbante) sulla relazione che ha con il suo chaperon Palomino, che gli fa scoprire la sessualità e, si intuisce, l’amore che l’autore sovietico non ha mai assaporato. è proprio questa sosta che lascia meno stupito lo spettatore, interdetto nell’osservare (senza tagli) un rapporto sessuale completo, ammorbidito da disquisizioni politiche relative all’Unione Sovietica e alla Rivoluzione d’Ottobre, ma pur sempre qualcosa che disturba perché sbattuto in faccia allo spettatore. Difatti non è l’atto in sé a disturbare, ma la sfacciataggine con cui Greenaway lo fa “assaggiare” allo spettatore.
Vivo, vivido e rutilante, Eisenstein in Messico è il racconto lungo un anno, nel quale il regista non riesce a portare a termine ¡Que Viva Mexico!, mentre il regime stalinista lo riduce come un miserabile e gli impone di ritornare a casa. E questo il passaggio narrativo scomodo, che Greenaway risolve con ironia senza colpevolizzare la patria o il regista.
Un film che permette allo spettatore di godere dell’equilibrismo stilistico di Greenaway, del suo linguaggio unico e coinvolgente. Un prodotto di culto che omaggia uno dei padri della settima arte e lo eleva, solo come lo scomodo e visionario autore britannico è in grado di fare.
Uscita al cinema: 4 giugno 2015
Voto: ****