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Eleanor Cole – Episodio 12 – Romanzo a puntate di Alessandro Forlani

Creato il 24 luglio 2012 da Fant @fantasyitaliano

Il vecchio la spinse a un uscio basculante: l’antica, rugginosa saracinesca rispose al raglio elettrico di un pulsante allo stipite. Di là, in un immenso garage, obsoleti, giganteschi cingolati erano fermi nelle piazzole dipinte, sbiadite; allineati per numero, dallo zero all’inconoscibile, nelle tenebre dell’hangar per chilometri sottoterra.
Eleanor scivolò con la poltrona a rotelle fra i ranghi silenziosi degli antichi veicoli: semi-coni di ceramica e d’acciaio di venti metri di diametro e altrettanti di altezza; sormontati da una torretta minacciosa di un obice, piuttosto un idrante. Lo scafo era irto di antenne e telecamere, bugnato di oblò, i vetri scintillavano di una luce dorata, fioca, sinistra.
Eleanor, come la maggior parte dei cittadini dell’Universo, prima d’ora aveva visto quei leviatani solo negli olofilm o nelle immagini sugli e.book.
«I dustrider, signora», Kaczynski sussurrò, alzò gli occhi a quelle torri su cremagliere e pignoni, «i grandi carri che hanno aperto all’umanità le piste dei mondi inadatti alla vita. Laboratorio, officina, stazione radio, ospedale… assolvevano ogni compito. Missioni di bonifica che duravano per anni, equipaggi costretti a traversate infernali chiusi nel ventre di questi ordigni nucleari. Non ne fabbricano più, sono scomparsi dalla Galassia: le scorie dei motori atomici e degli idranti all’idrogeno, le leghe dello scafo… erano troppo inquinanti, il design troppo rozzo. Ciò che di necessario con i dustrider è cominciato, ora le Compagnie lo proseguono con il superfluo. Questa è storia, come voi avete detto: e ad Ammit, esiliata dalla civiltà, dei carri abbiamo fatto un altro uso.»
A Eleanor sudava il palmo sulle pistole: quei veicoli velenosi, radioattivi, inerti nel silenzio e nell’oscurità, la tetra devozione del vecchio, la tremula luce gialla agli oblò, le mettevano i brividi.
Kaczynski la fermò a una sezione di cingolato dove si apriva un finestrino più grande, protetto dalle sbarre e sormontato di antenne. Eleanor intuì fosse un posto di pilotaggio, forse addirittura la plancia.
Immobili sui sedili, in una lucida colata di gelatina, le orribili mummie degli antichi carristi tenevano le cloche del corazzato defunto. Targhe d’oro ricordavano i loro nomi.
«È disgustoso!», Eleanor gridò.
«Si tratta dei nostri padri. È la nostra cultura.»
Il vecchio la girò sulla seggiola a rotelle, e la spinse ancora avanti nel deposito tra le fila di quei sepolcri meccanici. Più s’inoltravano nell’oscurità fra i dustrider più Eleanor sentiva l’olezzo di cadavere, la strozzava la nausea delle sostanze pericolose, guaste:
«Mi porti fuori di qui! Subito!»
«Avrà le sue risposte, signora.»
Finalmente, Kaczynski frenò la seggiola su una piazzola deserta: nel vuoto fra cingolati, il settantuno e settantatré, c’era una scatola rettangolare di latta cui l’indigeno armeggiò con le mani che gli tremavano. Sul coperchio c’erano cinque piastrine, Eleanor s’una di queste lesse il nome del Capo-Scavo.
«Il mio trisavolo e i suoi compagni non riposano qui», la voce dell’anziano s’incrinò di vergogna, «non posso portare loro reliquie, né accendere ceri di grasso alla memoria né rose del deserto nelle feste dei defunti. Vedete che il loro carro è perduto: sono stati le prime vittime dell’orrore.»
La scatola crepitò, proiettò un olofilmato sul muro spoglio e fuligginoso: si trattava di una ripresa dall’alto, ravvicinata; forse da un’olocamera sulla torretta del dustrider. Cinque uomini in vecchie tute da superficie barcollavano, con attrezzi da scavo e kit medico, sul ciglio di un cratere nel quale si dimenava una cosa viva. Il timer del filmato datava il XXVI secolo. Eleanor rabbrividì:
«Non è possibile, non…»
«Non è nulla, signora: continuate a guardare.»
Le sagome degli uomini, gli ingombranti scafandri, le impedivano di vedere l’abominio nel fosso: ma i cinque all’improvviso lasciavano gli utensili, si allontanavano dalla buca. La camera zoomava sull’orrore disseppellito.
Lì c’era il cranio di un orribile vecchio che, sfondato da una piccozza, rovesciava cervella e sabbia e vomitava sconcezze. Il mostro ostentava un’antica collarina, e il cencio di un talare del secolo XIX era sparso tutt’attorno sfilacciato dal tempo. L’addome dell’essere, i genitali, le viscere, gli arti deformati, le cartilagini, lo scheletro dal costato in giù, si radicavano disgustosi e pulsanti per centinaia di metri nel cratere scoperto; la faccia era un bulbo, l’escrescenza di un parassita.
La cosa rideva.
Quello che sembrava il comandante dell’equipaggio spingeva gli altri uomini a calci nel cingolato. L’olocamera registrava folate lugubri, quel malvagio, mostruoso cachinno e il rombo dei motori del dustrider che ripartiva. Il quadro si allargò fino a un pendio, che il carro prese a salire veloce mentre l’essere mostruoso, nel cratere, spalancava la gola umana in un enorme crepaccio, il ciglio era irto di pietre e di denti.
Una lingua di fanghiglia e di rena avvinghiò il cingolato. Il dustrider si accartocciò nell’abisso. La sabbia si rovesciò nella voragine, la crepa si chiuse con un rutto grottesco; la superficie si rattrappì nel volto pallido e raggrinzito che ululava e si dimenava nel cratere scoperto.
Il filmato s’interruppe all’improvviso. Eleanor restò muta ed esterrefatta a fissare l’oloquadro vuoto sulla parete di calce bianca:
«Si tratta… di riprese satellitari?», balbettò.
«No. I dustrider avevano simbio-cam che consentivano vedute dall’esterno: la memoria d’una di queste è ciò che resta dell’equipaggio settantadue, che agli atti è disperso con il veicolo. Sepolto da una tempesta, un incidente comune.»
«Ma quella… cosa?!»
«Gli uragani e le esplosioni d’iperidrogeno la ricoprirono poco dopo l’incidente, credo. All’epoca c’era fretta di edificare e terraformare, spartirsi le concessioni, e di condurre coloni e roboti al macello nelle miniere. Non s’indagavano certe cause. Quest’olocamera fu ritrovata quand’era ormai troppo tardi, e questo popolo già condannato a nutrirlo.»
«Nutrirlo?!»
Kaczynski sganciò un piccone dalla fiancata di un corazzato, si accostò alla parete, colpì: scoprì sotto l’intonaco l’armatura e la pietra. Fece lo stesso su un altro tratto di muro, e ancora, a casaccio; si accanì sul pavimento, lo spaccò fino al terriccio umido.
«Che diavolo fate?!», Eleanor scoppiò.
Il vecchio la afferrò per la nuca, la ribaltò dalla poltrona a rotelle, la trascinò fin quelle crepe sul muro e la stese sul pavimento sbreccato. Mollò.
Lei da terra gli puntò una pistola, ringhiò, si appoggiò con la mano libera fra i calcinacci della picconata.
Nella terra e nel calcestruzzo c’era qualcosa di carneo, di viscido.
Il vecchio ghignò. Abbassò sulla fronte gli occhialoni da minatore, accese la lampada incastonata alla montatura e la puntò su quel buco nel pavimento. Poi sulle pareti scalfite: nella calce e nel cemento e fra l’intrico dei tondini pulsavano nervi, vene e muscoli umani scoperti. Vivi.
Eleanor gridò schifata, lasciò cadere le armi, si trascinò fino alla seggiola a rotelle. L’indigeno le stava addosso:
«Capite?! Non siamo sciocchi succubi di un ciarlatano in mantello nero! Quest’orrore che ci insegue dall’origine è un assurdo che da secoli perverte la natura, ci impedisce la vita. È ovunque, è nell’aria, nella terra e nell’acqua; lo respiriamo con i polmoni bruciati, ce ne nutriamo, ma ci divora, ce lo abbiamo da venticinque generazioni nella carne e nello sperma e nel sangue. Questo orrore è il negromante di Ammit!»
Lei montò, strinse forte i cerchioni, spinse la sedia via dal vecchio che la incalzava. Le ruote scivolarono sulle interiora nel pavimento, che schiacciate spargevano un brodo giallo; le arterie guizzavano spruzzando sangue, le avvolgevano i raggi:
«Voi signora non ne siete attossicata, e avete sopportato di scendere fino a qui; siete l’unica che abbia guardato e non ricusi di credere, e avete grattato questa crosta mostruosa. Vi prego», Kaczynski si prostrò sulle ginocchia, le mise il capo in grembo, singhiozzò, «liberateci da questo male.»
«Alzatevi», Eleanor disse tetra, strappò i viticci organici schifosi, «riportatemi dal mio roboto e la signora Delfina. E innestate il lanciarazzi nell’avambraccio di Farinelli.»


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