L’hangar soffocava nei vapori d’idrogeno, la capsula ruggiva a motori a regime. Matsumoto li invitava a prendere posto nel modulo, imprecava ai chili di troppo nel trasmittente dello scafandro. La tuta cremisi, i fiocchi d’oro lo allargavano di circonferenza, con molte difficoltà s’infilava nella cabina.
Eleanor e Farinelli si calarono nel boccaporto, entrarono in quell’uovo di ceramica e acciaio.
«Guardiamarina Deepika Chaudhary; agli ordini, signorina.»
Quattro fanti con gli elmetti, i survizaini, le tute blu delle Galassie Orientali s’irrigidirono presentatarm con uno schiocco di tacchi. Tre imbracciavano i moschetti esplosivi, «i soldati Goel, Sharma, Narayan»; il grosso s’incurvava sotto il peso di un lanciarazzi, «fante scelto Srivas».
Eleanor indovinava, dietro i plexiglas degli scafandri, l’incarnato nocciola dei nativi di Gandhi: gli orgogliosi mustacchi, le basette degli uomini, l’ovale delicato della giovane comandante.
Si accucciò nel vano truppe con i fanti e Farinelli, sprofondò nel sedile, si allacciava le cinghie; Chaudhary e Matsumoto prendevano le cloche. Il condotto di eiezione si schiudeva sullo spazio, la capsula ululava a reattori incandescenti; inondato dall’ocra di Ammit, dal riverbero dei soli sulla gobba del mondo, l’abitacolo si accese di quadranti e di led. Matsumoto digitava la sequenza di espulsione, salmodiava alla cornetta con la torre di controllo:
«Modulo due-cinque-cinque-sette-due pronto al lancio dal condotto due-quattro. Inizio l’iniezione: decollo autorizzato? Meno dieci, meno nove secondi…»
L’imbarazzo di un navigatore interruppe il countdown:
«Ci rincresce, direttore: l’espulsione è revocata.»
«Qual è il problema?», Chaudhary abbaiò.
Una sagoma d’acciaio, maioliche e vetro scintillava all’improvviso nei monitor esterni.
«La traiettoria del vostro modulo», riferivano dalla torre, «rischia di incrociare di centoventi secondi il periplo orbitale dell’astro-schooner Houri, bandiera degli Emirati Terrestri, crociera di piacere, priorità elevata. L’espulsione è rimandata a centottanta minuti.»
Eleanor saltò su dal sedile, s’inerpicò fin la cabina di guida; «fra tre ore troveremmo solo sabbia laggiù», sibilò nell’apparecchio di Matsumoto, «trasmette allo schooner di ancorare subito, riferite: sbarco di emergenza di un ispettore della Compagnia, priorità assoluta.»
«Sareste entro lo spazio di frenata, il rischio di collisione è l’ottantacinque percento: è troppo pericoloso, signorina Cole.»
La capsula era avvolta nell’ombra dello schooner, rischiarata a intermittenza dagli strumenti di bordo. La sagoma del vascello si allungava nel cielo d’ocra. Eleanor scorgeva, dai cristalli del boccaporto, l’acuminato gigantesco bompresso, i calici dei retrorazzi, la cubia profonda. La polena era un abbraccio di vergini, ruotavano loro attorno i controfiocchi solari. I razzi incendiavano d’idrogeno lo spazio circostante per centinaia di metri, le vampe lambivano il fondaco orbitale.
«Quanto impiega la capsula a raggiungere l’atmosfera?»
Chaudhary e Matsumoto sudavano nei caschi; «circa…»
Scappucciate le falangi degli indici, Farinelli le inserì in una porta usb: i driver della capsula gli arsero negli occhi:
«Otto-otto-punto-zero-sette secondi, signora.»
Eleanor picchiò sul pulsante di avviamento: «sono meno di due minuti.»
La capsula decollò. L’urlo dei reattori azzittì le trasmissioni; il panico, la rabbia, l’angoscia dei navigatori si spensero nel boato e le grida dell’equipaggio. La spinta rovesciò Eleanor, nel vano dei passeggeri, addosso a Narayan, Sharma e Goel. Il modulo saettò, sotto chiglia all’Houri, nel vortice abbacinante delle maestre e dei gran velacci.
Schiacciata addosso ai fanti dalla violenta accelerazione, supina all’oblò, Eleanor vedeva, a pochi metri da loro, la candida carena dell’immenso vascello, il riverbero accecante sui pannelli dell’elio-vele. Le parabole ventrali, le antenne dello schooner, sfioravano le terrecotte e le lamiere dell’uovo.
Il modulo passò fra i parrocchetti rotanti, attraversò le fiamme bianche dei reattori di frenata. Le vampe scivolavano sui cristalli del boccaporto, l’abitacolo arroventava. La capsula schizzava, a poppa allo schooner, sui panelli dipinti in verde con le insegne degli Emirati.
Chaudhary e Matsumoto, aggrappati alle cloche, lottavano contro l’inerzia, l’attrazione dell’astronave: il direttore stornò il muso della capsula a un soffio dall’impatto con un corno di mezzaluna, i razzi annerirono un nome di Allah. L’uovo scansò il boma e la randa, superò l’ultimo ponte, picchiò verso Ammit.
La radio crepitò d’insulti in arabo e grida dai canali dello schooner e dal fondaco orbitale. Chaudhary vomitava al microfono preghiere ed empietà contro Ganesh e Kali.
Scemava l’accelerazione, Eleanor si rialzava, Farinelli la aiutava a tornare sul sedile.
Fuori, nello spazio, l’Houri rimpiccioliva, sfocava nel vuoto cosmico, fiammeggiava, svaniva. Il cielo tornava d’ocra, scendevano nell’atmosfera, la capsula frenava a velocità di crociera. Manovravano sicuri nello scroscio di navette, scialuppe e container che rovesciavano nei deserti vanità a tonnellate.
Ammit da vicino si striava di uadi, di canyon, di dune, si macchiava dei grumi ruggine d’insediamenti di minatori; le sabbie ribollivano trasportate dalle tempeste. Matsumoto correggeva la rotta secondo le coordinate dell’incidente presidenziale, il timer stimava mezz’ora all’atterraggio.
Eleanor solo adesso si accorgeva che i fanti gocciolavano sudore freddo sulle visiere degli scafandri, trattenevano la nausea, respiravano per calmarsi; e indovinava che in quelle tute c’erano reclute, novellini:
«Spaventati di già?», li sprezzava irritata.
Srivas ingobbiva sotto il tettuccio dell’abitacolo, sputò sincero l’impressione di tutti:
«Siete famosa signorina Cole, potreste vendere frigoriferi su Titano: questo si dice di voi, non ci avvertirono che siete pazza.»
La squadra si sciolse in un coro di risate.
«Non avevamo mai servito un ispettore della Compagnia», disse Sharma entusiasta, «su un fondaco orbitale non c’è granché da fare: solo ronde e picchetti. Con voi signorina sarà sempre… così?»
«Spareremo, combatteremo?», scalpitava Narayan. Eleanor li raffreddò:
«Spero no, sono antropologa: le persone preferisco studiarle, e integrare le diverse culture nella grande ed eterogenea civiltà interplanetaria.»
«… e poi vendere loro di tutto», ghignò Deepika dalla cabina, «ridurli in bancarotta: tanto vale ammazzarli.»
«Com’è scolpito sulle vostre fibbie, guardiamarina Chaudhary, il consumo è progresso, il benessere è pace: profitto e umanità», recitava Matsumoto.
«Si ostinano a scordarlo», Eleanor sospirò. E guardava alle uniformi dei fanti tappezzate di logo, di acronimi e slogan; le armi per difendersi, i filtri per respirare, il kevlar contro i colpi, i tessuti isolanti, le protezioni contro i batteri, le radiazioni, le impossibili temperature dell’universo: tutto era dovuto all’interesse e la grazia dei potentati multigalattici della chimica e farmaceutica, l’elettronica, l’informatica, l’industria tessile e bellica. Se quegli uomini sopravvivevano al vuoto, alle tenebre siderali e aliene, era dovuto alle maestà della Bayer, le grazie sovrane della Nokia e la Sony, gli introiti della Nike, gli interessi della Beretta: senza di loro l’umanità sarebbe stata perduta; senza sit-com, social network, cartoon e spettacoli la psiche devastata dai terrori dell’ignoto, senza olo-game sprovveduta; «siano sempre benedette la Nintendo e la Hasbro», recitava fra sé e sé a esorcismo d’irriverenza, «la Virgin, la Fox, san Riccardo Branson e santo Stefano Jobs»; poiché i governi della Terra natia, già alla fine del XXI secolo, lasciarono l’umanità priva di mezzi e di leadership sul lastrico del cosmo su un pianeta al lumicino; un cadavere di civiltà preservato dal suo prestigio.
«Gli Ammit sono talpe», sbadigliava Goel, «scavano, nient’altro: non hanno una cultura che potreste studiare.»
«Hanno ammazzato il presidente Landolfi. E se vuol essere una strafexpedition», caricavano i colpi in canna, inastavano le baionette, «siamo pronti, signorina Cole.»
«Il presidente è certamente morto, non sappiamo se è stato ucciso: è un’indagine per capire com’è successo. Ho anch’io due pistole, e le so usare credo meglio di voi: tenetevi i cannoni in fodero, calmatevi, intesi?»
La squadra mugugnò sì signorina; Srivas, Sharma, Narayan e Goel verificarono cento volte, con gli occhi bassi vergognosetti, le tute e le giberne e i termometri e le torce, gli stivali, le munizioni, le cerniere e gli zaini. Chaudhary li spernacchiava, Matsumoto glissò.
Eleanor sorrise, ammiccò a Farinelli. L’automa si alzò, si spostò su una predella, s’interfacciava agli altoparlanti di bordo saldo al suolo con i piedi magnetici.
Nulla in mundo pax sincera gli sgorgava dalle labbra; l’aria sacra di Vivaldi li accompagnava nell’atmosfera.
Un puzzo d’idrocarburi, di metallo e bruciato s’insinuava nella capsula che si abbassava su Ammit.
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