Il cadavere giaceva su un altare di marmo bianco: la parrucca spumeggiava d’argento candido, vivo, sulla tuta nera lucida, sulle spalle e sul petto.
Il goretex magnifico, la panciera e lo scapolare non erano stati sciolti, Farinelli squittì: «orribile e increscioso, un intervento da dilettanti», IG Farben lo guardò sbieco, lo azzittì con un ghigno:
«Un automa che s’indigna per un omuncolo, spudorato a tal punto da riprendere un uomo», schiacciava sotto i tacchi, sui pannelli gelati, la saliva già ristretta in una perla azzurrina.
Uno Zeiss proiettava a luce grigia sul ghiaccio sonetti-stampa ed elegie funerarie: urnas plebea, túmulos reales; menos solicitó veloz saeta gocciolavano sulle pareti a maiuscole vitruviane.
Eleanor notava che l’omuncolo aveva un’espressione troppo finta e grottesca: «persino per un cadavere», precisava fra sé. China a quelle labbra socchiuse e gelate, su quel volto incrostato, dalla smorfia bizzarra, scopriva che la lingua era una protesi di metallo.
«Strappala», sibilò a Farinelli. Lei prese Farben sottobraccio, lo allontanava dall’altare e dal corpo; ruvida lo provocava a un contenzioso accademico, medico, burocratico finché dall’ara non avvertì quello schiocco. E vide, con la coda dell’occhio, l’omuncolo con il capo riverso e la lingua violacea ciondoloni e forata, l’enfia ferita di un piercing strappato. E i pizzi del suo roboto insozzati di gocce nere.
Farinelli richiudeva la bocca al morto, lei tornava al tavolo con Farben:
«Esaminate questo cadavere quante volte vorrete, scommetto che i risultati saranno sempre contraddittori.»
«È un fantoccio fabbricato in bottiglia con del liquido seminale, sangue, feci, unghie, peluria, scarti di dna», il marchese ci affondava l’unghia aguzza: la carne scoperta delle gote e le narici si stava già disfacendo in una creta biancastra, «quali dati dovrei cavarne? Delle morti cruente di ergastolani e contractor, dei carcami di mattatoio le cui briciole lo compongono?»
«Gli omuncoli di presidente», Eleanor avvampò, «sono di sperma del presidente»; Farben grattava l’iride grigia del morto, gli affondava un pugno in bocca, ne scrollava le gengive: colori differenti e incisivi di roditore affioravano sotto la carne e cartilagine già disfatte; «il cadavere suggerisce a chi sa leggere i segni», Eleanor proseguiva cupa e determinata, «che l’omuncolo è morto affatturato. Malocchio: un incantesimo da operare a distanza senza bisogno di materia organica appartenente alla vittima. Avremmo rischiato anche il vero presidente, altrimenti: non importa sia distante anni luce. Omicidio stregato.»
«Chi vuole leggere i segni…», il marchese s’irrigidì.
«È lo stesso, su un mondo magico.»
Farben si appoggiava a braccia conserte, in silenzio, al tavolo di pietra bianca dov’era steso quel simulacro. Eleanor indovinava come ogni tendine del viso magro, teso, esprimesse avversità per l’idea di magia. «Eppure», considerava fra sé, e l’ossimoro la irritava, «gli omuncoli che usiamo in chissà quanti maneggi, uno dei quali gli marcisce di fianco, li fabbrichiamo in fin dei conti a tutt’oggi secondo le istruzioni di un occultista del XVII secolo. Ma ci pare normale, a non chiamarla stregoneria.»
Lo Zeiss tornava a scrivere sul ghiaccio le ultime due terzine di una memoria di Luis de Góngora:
Bajad luego al abismo, en cuyos senos
blasfeman almas, y en su prisón fuerte
hierros se escuchan siempre, y llanto eterno,
si queréis, oh memorias, por lo menos
con la muerte libraros de la muerte,
y el infierno vencer con el infierno [1]
«Pensate che Ammit possa essere un mondo magico?», riprese flebile e sconfitto il marchese, «ne ho letto su una rivista. Teorie bizzarre dovrete ammettere, signorina: fanno il paio con la quantistica. Gli scienziati notano ciò nondimeno, più ci allontaniamo dal nostro esausto pianeta…»
«La magia, per l’antropologo», gorgogliò Farinelli, «è un argine dell’uomo al terrore del vuoto, della perdita di una presenza e di un senso nell’universo. Incanala la paura, il dolore, riscatta l’individuo dagli istinti animali. Se perdiamo i nostri punti di riferimento, temiamo di perdere senso noi stessi. Le crisi di presenza caratterizzano condizioni nelle quali l’individuo, al cospetto di eventi estremi, sperimenta un’incertezza, una crisi radicale; in quel dato momento è incapace di agire. Era vero sulla Terra fino al secolo XX, figuratevi nel nulla dell’Universo.»
Farben premette il dito sporco d’icori sulle labbra arricciate del valletto artificiale. Da un’oblo di quella camera ardente, velato da una cortina di velluto blu notte, si sporgeva a guardare fuori, fra baraccopoli e dune, ciclopici Teletubbies spiaggiati nel nulla. Eleanor tradusse la sua smorfia schifata in un “eccome, se non è così”, si azzardò a continuare:
«Sì, le condizioni sussistono. Penso che i coloni pratichino la magia, che in qualche modo sul pianeta funzioni; che in questa circostanza l’abbiano usata contro di noi.»
«Mi accorgo che non scherzate, io strabilio signorina Cole. Comprenderete che debba ridervi in faccia per queste vostre scempiaggini.»
«Domandatevi piuttosto se il vostro ceto, marchese, possa essere contento dell’esistenza di mondi magici. Di un universo che non funziona come sappiamo o vogliamo, che si scrolli le leggi fisiche dalle spalle allo sforzo di un annoiato perché sì. Se esistono questi mondi e nazioni, se ci insorgono contro, voi nobili di logo, dirigenti e azionisti non tarderete a subirne gli effetti», Eleanor deglutì, «né ad agire di conseguenza: si sa, con la razza umana, come va sempre a finire. Com’era quel bel verso di un antico poeta? Il genere umano non può sopportare troppa realtà; sapete meglio di me che l’Universo e l’Umanità hanno bisogno di fiction, e noi e tutto ciò che rappresentiamo siamo arbitrio, simulazione e spettacolo. Per i poteri che mi sono conferiti pretendo però, prima che interveniate, di indagare questa cultura.»
«Qual è la ragione che v’infonde tanto entusiasmo?»
«Purtroppo», Farinelli incupì, «entusiasmo non è il termine esatto.»
Il roboto con un inchino al marchese s’interfacciò con il proiettore di versi funebri. Apparvero alle pareti istantanee di astronauti, commessi, soldati, anonimi inservienti delle Galassie Orientali mutilati in pentacoli di sangue fresco e di luce laser, di gesso, di tubi neon; tracciati su pavimenti di arenaria e di acciaio. I dettagli disgustosi di figurine di cera, di feticci di ferraglia e scarti organici e minerali; di gatti e pollame e capretti eviscerati. Un’intera galleria di decessi contraddittori; statistiche che denunciavano un parallelo inquietante fra le pratiche stregonesche e i fallimenti su Ammit.
«Non è necessario che un direttore di fondaco conosca i dettagli di campagne che vanno male. Certe cose minute e oscure», Eleanor aggiunse, e sopportava le foto orrende con un pizzico di kentucky, «impegnati a incassare, rendicontare e immagazzinare… dall’orbita non si vedono. E va bene così. Ufficialmente sono qui per strigliare Matsumoto, prevenirlo, proteggerlo; l’incidente all’omuncolo ha complicato le cose. Loro aristocratici di logo del Sistema», gli ancheggiava sfrontata, con i revolver scoperti, «non vorranno, mi auguro, procurarmi fastidi.»
Farben staccò il dito di Farinelli dalla porta usb del proiettore di versi sacri, scorse il menù su una scelta dall’Esodo; 22.18:
non sopportare che una strega viva
Il teschio diseguale e rabberciato dell’omuncolo, ormai quasi nudo sotto la carne caduta, sparsa raggelata, croccolante sul pavimento, parve ridere soddisfatto di quel biblico precetto.
«Se su Ammit c’è un negromante, va trovato, signorina Cole.»
«Chi può riuscirci meglio di un antropologo? Decollate marchese: io resterò.»
«Il protocollo prevede che ne informi il concistoro; che i nobili si riuniscano per decidano se…»
«Nel frattempo prenderò congedo da Matsumoto e i suoi uomini», Eleanor sbuffava sulla valvola del portellone, «Vogliamo uscire da qui, ché si gela?»
[1] Scendi all’abisso poi, entro i cui seni / bestemmiano anime, e in carcere forte / ferri s’odono sempre e pianto terreno, / o memoria, se tu vorrai almeno / con la morte liberarti dalla morte / e vincere l’inferno con l’inferno (Luis de Góngora; Sonetti, scelta e traduzione di Cesare Greppi; Mondadori, Milano 1997)
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