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Eleanor Cole – Episodio 6

Creato il 15 maggio 2012 da Fant @fantasyitaliano

Eleanor ottenne una cabina.
Ora nuda s’immergeva nel bagnoschiuma che lievitava nella tinozza di maiolica, Farinelli le versava altra acqua bollente. Lei, con un guanto di crine, si strigliava dalla pelle le recenti fatiche; l’automa le sorrideva fra i vapori di Yves Saint Laurent. Cavò da uno sportello nel ventre la protesi insanguinata estirpata all’omuncolo:
«Volete ascoltarla? Siamo soli, la cabina non ha microfoni.»
Eleanor si rannicchiava ginocchia al grembo con gli occhi chiusi su un cuscino di schiuma: «solo se nel mentre mi strofini la schiena», gli porgeva uno spazzolone che galleggiava nell’acqua. Il roboto le sedette di fianco, lo sgabello di betulla cigolò del suo peso. Si mise in bocca quella lingua di zinco, la attivava con un tossito. Le accarezzava delicato le scapole e recitava con la voce del presidente:
«…e benché piovano moduli commerce-forming, che è un automatismo quando sbarca un leader di Compagnia, su Ammit il processo si fermerà. Questo mondo così lontano, di antica colonizzazione, ci interroga sui limiti del profitto, sulla natura dell’umanità…»
Eleanor imprecò, saltò fuori dalla tinozza; Farinelli, irrorato di spuma, daccapo ripeteva la solenne dichiarazione. Lei lo rasciugava con il telo profumato:
«Scusami, lo so, non è colpa tua: Landolfi può solo obbedire ai nobili e gli azionisti, un omuncolo può ripetere a memoria. Io rispondo agli ordini segreti che scavalcano ciò che il pubblico sa. Perché rischiare vite e disastri, e negare l’evidenza ai vertici di una campagna che non si vuole condurre?»
L’automa, con il volto di ottone gocciolante, appannato, pigolava in sol diesis licenza a spegnersi per mezz’ora. Lei lo baciò dolce sulla fronte, gli sfiorò l’interruttore sulla nuca: le pupille di Farinelli si oscurarono con un ronzio.
Eleanor passò nel beauty-tubo in una nube di borotalco e colonia, si arrotolava del kentucky in cartina, si accendeva il tabacco, usciva in accappatoio in coperta con i riccioli in un turbante di spugna.
Trovò Srivas, Sharma, Goel e Narayan cupi e immusoniti ad attenderla nel corridoio.
«Immagino che sappiate, maledetti quei fono-tubi», Eleanor spezzò loro le sillabe sulle labbra, «non devo rendervi conto di nulla: sulla capsula c’ero anch’io, ho rischiato come voi di sfracellarmi in orbita e il linciaggio da quei barbari, fuori. Ho rischiato per un omuncolo, consapevole che cosa fosse: voi almeno credevate nel personaggio, e avete il dovere di credere nella causa», ma sentiva un’eco falsa di ogni verbo al pensiero di quanto udito nella protesi vocale. Grazie al Cielo la baggianata finiva lì: quei ragazzi, cui da sciocchi prudevano i moschetti in pugno, orgogliosi delle uniformi di Compagnia, non avrebbero conosciuto la barbarie e la follia nei labirinti di un mondo ostile anche inviso all’Umanità, «in ultimo il vostro compito finisce qui: ritornerete con il direttore e con i nobili al fondaco; io, viceversa, scenderò sul pianeta.»
«Ed è questo, signorina, che ci dispiace», mugugnò l’enorme fante scelto che imbracciava il lanciamissili e le granate, «ne abbiamo parlato con l’ufficiale Chaudhary: non possiamo farci nulla, seguirvi è renitenza, diserzione, disobbedienza… un sacco di brutte cose per un soldato, che hanno in comune la lettera zeta, il congedo con disonore ed una corte marziale.»
«E su Gandhi le nostre famiglie vivono solo del nostro soldo», aggiunse il minuto, nervoso Narayan, «ma quanto ci piacerebbe seguirla in questa impresa!»
Eleanor restò colpita: non erano baciapile, erano stupidi; più entusiasti di lei, con un’idea di avventura troppo esotica e colorata. Quell’accento s’incendiava di commozione al nome nobile del loro mondo natio, degli stenti e degli affetti che custodiva. Lei, che lo aveva visitato da studentessa, lo ricordava un’azalea di colori nel buio dell’universo, spandeva profumi per anni-luce all’intorno.
«…ma alla peggio i furieri ci striglierebbero, nient’altro», ammiccava Goel, «se smarrissimo munizioni o elementi di equipaggiamento. Così siamo d’accordo che…», diede di gomito al compagno robusto; Srivas le mise in grembo un grappolo di bombe a mano, le porse uno survizaino con il carico ottimale, «nei pacchi che troverebbe in cambusa, a bordo di una scialuppa d’onore, abbonderebbero pasticcini e beauty case, non ci sarebbero depuranti e bende. E le granate potrebbero tornarvi utili …fra i selvaggi, voi sola contro migliaia…»
Eleanor soppesava quelle cannule di ferro nero che suggerivano devastazione ed eccidio, se le passava fra le dita color pesca e curate:
«Continuate a non comprendere: io non uccido.»
«Lo abbiamo capito, signorina antropologa», Sharma glossò tetro e funereo, «quelle bombe non sono per quelle talpe con lo scafandro: strappate la sicura e ingoiatene una voi, quando è sicuro che sarete alle corde. Meglio che fatta a pezzi e divorata da viva.»
All’improvviso la voce di Matsumoto tuonò nell’ombra all’estremo della galleria:
«Mi auguro che non accada, che non vi servano quegli affari», l’omaccione scendeva dalla cabina di pilotaggio, mise ad Eleanor, nell’altra tasca di accappatoio, una piccola trasmittente dall’antenna sproporzionata: «i cavalieri di Shell e Total, che pilotarono nella discesa, conoscono un’astronave quanto me una macchina per cucire; gli automi di bordo obbediscono, zitti. Perciò siamo d’accordo con l’ufficiale Chaudhary, che vi manda i suoi saluti che è obbligata alle cloche, che quando voi signorina sarete in comodo di sbarcare solo allora la scialuppa decollerà. L’ellisse di allontanamento da Ammit sarà fatalmente», enfatizzò quell’avverbio, «molto lenta ed assai ampia, se capite cosa voglio dire», la lingua gli rotolava sugli aggettivi; «ovvero fra trenta giorni saremo di nuovo su quest’altura, voi attiverete quel radiofaro», le palpava l’accappatoio, «e noi saremo subito a prendervi, più veloci e in maggior sicurezza di un intervento dall’orbita. Vi basta un intero mese per studiare quei disgraziati, o qualsiasi vostra faccenda su questo schifo di mondo? Io dico di sì.»
Eleanor sentì le dita pingui tentarle le cosce nude sotto la tasca del trasmittente, spaccò con un pugno le labbra di Matsumoto.
Quello si piegò con un latrato. Un inchino ossequioso, la gavotta all’indietro, le gocce di sangue che macchiavano le mattonelle componevano, una volta per tutte, l’incomprensione fra loro su questioni di autorità:
«Grazie, direttore: precauzione squisita», e appoggiava le granate, lo survizaino, il radiofaro nella cabina e congedava i quattro fanti con una stretta di mano, «sbarco all’alba del primo sole, ci vedremo fra trenta giorni»; chiudeva la porta bianca e si sdraiava sul materasso.

***

Farben tornava nella camera ardente. L’automa-cameriere, restituitogli il caduceo, lo accompagnava a quell’incombenza con una pala e con un secchiello. Sull’altare si arrestava interdetto, gli volgeva la faccia stupida piagnucolante contraddizioni e supplicava che gli affidasse degli altri compiti.
Lo Zeiss rimandava alle pareti ghiacciate Marina Abramović che strofinava carcami in una cripta a Venezia nel XX secolo. Nella penombra del proiettore di versi funebri Farben si accorgeva che il cadavere non c’era più. L’altare era cosparso di sangue, di grasso, di viscere e di frattaglie: non abbastanza da comporre un intero omuncolo; né c’era traccia della tuta e degli accessori.
L’uscio della ghiacciaia si chiuse con uno scatto.
La cosa saltò addosso all’automa dalla liquida oscurità d’immagini e di parole: era uno scheletro diseguale di orangutan, di agnello, di canide; le placche saldate con una schiuma biancastra a comporre una struttura coerente. Quell’orrido pupazzo di chimica e d’ossami affondava nello scafandro che era stato del presidente, lo tracimava con i suoi resti; i liquami stagnavano negli stivali magnetici, nelle pieghe del goretex, si spargevano fuori con sciacquii disgustosi.
«Lo sperma di Landolfi», la controprova divertiva Farben, la grottesca menzogna lo indignava all’azione.    
 Il mostro ficcava le falangi appuntite nelle lenti e nella gola dell’automa-cameriere, strappava cavi e chip, gli azzannava i circuiti. Il roboto stramazzava con la testa che scoppiettava.
Farben incendiava di 300 volt le fauci dei due serpenti intrecciati nello scettro, lo impugnava per battersi:
«Tu comprendi, schifosa cosa», sprezzò, «che in quest’Universo non dovresti esistere? Il mio rango mi costringe a comporre quest’ossimoro», gli abbatteva sulla fronte il caduceo fumante.
Lo scheletro barcollava a cranio aperto a chiudergli assassino gli artigli sulla gola: la gorgiera di pizzo gli impediva la stretta. Dalla crepa bruciata sulla fronte dell’essere scrosciavano sul pavimento le cervella e le larve, i vermi e le frattaglie gli spruzzavano il belletto. Fumavano e sfrigolavano sulle lastre gelate.
Farben trattenne il vomito, spinse il caduceo in quel fiotto di schifo. Fece leva con lo scettro fra l’allaccio dello scafandro, la trachea saldata male, logora, sfilacciata: la guarnizione di metallo della tuta resistette al calore dei due serpenti, la colonna vertebrale fradicia si spezzò con uno schiocco disgustoso.
Lo scheletro crollò decapitato.
Il teschio deforme rotolò sul pavimento, si fermò a un battiscopa su un mucchietto di brina.
Farben lo calciava disgustato con le scarpe di vernice dalle fibbie di seta grigia. Le orbite s’incendiarono di luce nera, che oscurava il Federico Ruysch di Leopardi proiettato sulla parete di fronte.
«Vi ammiro, marchese», disse il cranio, masticava quelle parole fra le mascelle raffazzonate, «politico e combattente e di potere.»
«Cosa siete?», strabiliava lui. Che ancora colpiva quell’abominio di chirurgia che perdeva a ogni calcio parietali e molari, schiuma giallognola, frammenti di avorio, «non avete alcun senso.»
«Io sono una parte di quella forza che vuole costantemente il male e opera costantemente il bene», Farben era esausto, vacillava, capitolò: si chinava, con le mani che gli tremavano, a quel teschio fiammeggiante che decomposto citava Goethe.
Al tocco era freddo.
 

***

 
Eleanor si sporgeva, cavalcioni su Farinelli, da un muro di cemento a cento metri dalla scialuppa: si sbracciava in un saluto ai soldati che ricambiavano dagli oblò della stiva. Matsumoto dalla cabina di pilotaggio la accomiatava sprezzante con una smorfia del labbro rotto; Chaudhary dal sedile di fianco scimmiottava quell’alterigia e non riusciva a non ridere. Poi le ammiccò con un saluto militare, tornò assorta ai controlli e la cloche. Ai ponti superiori, preparati al decollo, gli aristocratici sedevano dietro a tende abbassate ciascuna con impresso il proprio logo. Solo Farben si affacciava dal finestrino, con gli occhi fissi e gelidi su di lei.
«Quello sguardo strafottente di chi aspetta un risultato», Eleanor rimuginò, gli accennava un inchino: subito Farinelli la accucciò contro il muro. I motori dell’astronave ululavano la messa in moto, dalla coffa gli altoparlanti scandivano il count-down. Posate alla parete lo survizaino, la trasmittente e le bombe, il roboto la proteggeva fra il proprio corpo e il cemento.
I reattori della scialuppa vomitarono fiamme, la terra tremò. Un’onda incandescente spazzava la baraccopoli. Protetta da quella vampa dal plexiglas del tricasco Eleanor vide la navetta presidenziale svanire in un baleno nell’indaco dell’atmosfera.

 


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